cafarus macobrius ANNALI DI CAFFARO (Cafarus)
ANNI 1099-1163

DELLA LIBERAZIONE DELLE CITTÀ D’ ORIENTE

BREVE STORIA DEL REGNO GEROSOLIMITANO

Chiunque per util suo, o per l’altrui, abbia a chieder notizia degli anni dalla spedizione di Cesarea volti fin qui, legga quanto Caffaro, comprovandolo di sua memoria, ne scrisse, e lettolo l’abbia per verità. Perocchè Caffaro, che dal tempo di quella spedizione fin ad ora, od ebbe parte nel reggimento de’ consolati, o conobbe gli altri consoli che pur l’ebbero, con studio di cuore e di mente andò per sè dettando e i nomi di essi e il tempo, ed il variarsi de’ consolati e delle compagne, le vittorie e il cambiarsi delle monete avvenute in un medesimo consolato, come in appresso si legge; e poi presentò questo scritto in pien consiglio, ai consoli di allora, Tanclerio e Rubaldo Bisaccia, e Ansaldo Spinola. E questi consoli, in pien consiglio che assentia, ordinarono a Guglielmo di Colomba, pubblico scrivano, che trascrivesse il libro che Caffaro aveva composto e lo ponesse nell’archivio del Comune, perchè in ogni tempo si risapessero le vittorie dei Genovesi: come partissero per Cesarea nel 1100; come ritornassero nel 1101.
Ianua tuta quidem fuit illo consule pridem, Urbs ea que movit, quod sic ex ordine novit; Nomen ei Cafarus, presens quem signat imago; Vivat in eternum cuius generosa propago.

Presso che al tempo della spedizione di Cesarea, un po’ innanzi, cominciò dunque nella città di Genova un reggimento di tre anni per sei consoli. Furon essi: Amico Brusco, Mauro di Piazzalunga, Guido di Rustico di Reso, Pagano delta Volta, Ansaldo di Brasile, Buonmatto di Medolico; e ciascuno, console così del Comune come de’ placiti, cioè di giustizia, per quei tre anni. A metà di lor ufficio, sull’ entrar di Agosto, XXVI galee e VI navi, salparon da Genova per Gerusalem: e venute con l’esercito al porto di Laudicea colà svernarono. E trovando i Genovesi che quella parte di Oriente nè a Gerusalem più aveasi re, nè principe ad Antiochia, la guardarono, finchè, come ordinava il legato pontificio, ed essi stessi persuadeano, un re in Gerusalem, un principe in Antiochia poteron riporre. Pertanto venuti tosto con il legato a consiglio, mandaron per nunzii a Baldovino in Edessa, e a Tancredi in Tiberiade, che ne andassero a loro. E Tancredi, andò, senza indugi; e come voleano il legato e i Genovesi, il principato di Antiochia si addossò. Più tardi, poi, Baldovino, con CC cavalieri e con CCC fanti si portò da loro, nel porto di Laudicea; e colà, il legato e i Genovesi esortandolo ad accettare il regno di Jerusalem così vi accondiscese dicendo: "Purchè mi abbiate promesso che questa estate m’avrò il vostro aiuto nel prender le due città dei Saraceni che mi voglia, prometterò di andar all’atto a toglier quel regno" . E subito i Genovesi dieder fede che quanto il re chiedea avrebber fatto; al che, tosto, Baldovino e diè parola di accettar il regno e: "comincerò io - aggiunse - con la fiducia in Dio e in Voi, a far il viaggio per toglierlo"; e dopo tre dì s’incamminò coi cavalieri e coi fanti che dissi. Poichè poi, s’andava appressando alla stretta dei monti presso Baruti, s'avvisò di aver di contro un tre mila Turchi che vi si erano allogati; e conoscendo che non potea storzar il passo saltò, in armi, a cavallo, e finse di dar volta. E subito quel grosso nerbo di Turchi discese dalla stretta avvallando. Ma poichè Baldovino conobbe che eran in aperta campagna ridrizzò, gagliardo, la fronte e le armi con tutti i suoi cavalieri contro que’ nemici di Dio: e i Turchi al veder che ei rivenia con si fiero aspetto, voltate le spalle, gittaron le armi prendendo a fuggir su cavalli verso la foce. Ma Baldovino, cavaliere di Dio, con mortale impeto a lor dietro: e prima che a quella giungessero quasi tutti li lasciò morti pe’ campi; e lor armi, lor cavalli, ogni loro cosa si prese, e una porzion, poi, come vuol l’uso di guerra, partì ai suoi cavalieri e ai suoi fanti. E con questo trionfo n’andò a Gerusalem, dove fu accolto con gioia dal patriarca e da tutti gli abitanti: posto sul trono ricevè la corona, quindi pel primo reggendo con virile animo quel regno per XVII anni. I Genovesi, poi, mentre svernavano in Antiochia, s’ebber distrutto luoghi e castelli molti de’ Saraceni ; ed entrando la quaresima di là si partirono con le galee le altre navi, l’esercito tutto, e lungo qulle città marittime, che allora pur erano de’ Saraceni (e n’ebber desse assai morti) si condussero in fino alla Città di Caifa, ove, per furia di mare, trassero sulla spiaggia lor legni. E mentre colà soprastavano, in una notte, l’armata di Babilonia, che era in quaranta galee, tra una grande fortuna, costeggiando quella città, raggiunse in fretta il porto di Acaron. Pur in mare riposer tosto la notte stessa una parte di lor galee i Genovesi, ma nell’inseguirla furono a vicenda separati dalla tempesta. E resi di buon mattino, la domenica delle Palme, devotamente i lor servici a Dio, il dì seguente con tutte lor galee fecer viaggio per Giaffa. Come venivano appressandosi ecco re Baldovino su due saettie con trombe e bandiere molte venir loro incontro, un miglio dalla città, a sollecitarli graziosamente che non tardassero, come avean promesso, di porsi a servir il reame di Jerusalem, cioè di Dio. E così i Genovesi venuti a Giaffa col re, le galee tutte trassero a terra, e il mercoledì santo s’incamminarono con lui a Gerusalem, dove il sabato seguente, che era il santo, si recarono at Sepolcro del Signore, aspettando digiuni un dì e una notte, che colà scendesse il fuoco di Cristo. Nè questo scendendo quel dì e la notte dopo, così, senza lumi, se ne stetter nella chiesa del Sepolcro, spesso spesso tutti ad una voce gridando: "Kyrie eleison, Kyrie eleison." E venuto il mattino (era il dì della Risurrezione) il patriarca Damberto, che avea seco Maurizio vescovo di Porto e legato pontificio, tenne questo discorso al popolo: "Datemi ascolto, fratelli, se pur vi piace. Mesti io vi veggo perchè ancor il Signore non ha mandato, come usa, il suo fuoco dal cielo: nè c’è da dolersene, bensì da rallegrarsi che Dio non compie i miracoli per quei che han la fede, ma per quei che non l’hanno; e finchè questa santa città era in poter degli infedeli ottimo fu che Dio col compir il miracolo richiamasse gli increduli alla fede; ora poi che essa è in poter de’ fedeli non v’ha necessità di miracolo. Ma poichè dubitiamo che tra voi pur sian molti, o punto istruiti o increduli della fede cristiana, noi pregheremo Iddio che per l’ignoranza o l’incredulità di questi infedeli ei ci mostri il fuoco suo come al solito. Perciò andiam tutti con divozione al suo tempio, e colà quanto più il Signor nostro ci faccia vedere di esser tardo a esaudirci, altrettanto più lungamente aggiungiamo noi preghiera a preghiena fino a che abbiam impetrato ciò che chiediamo. Dovete saper, o fratelli, che Dio una tal grazia con queste parole promise al suo servo Salomone allorchè questi ebbe compiuto il tempio del Signore: "Chiunque ponendo il piè nel tempio chiederà con il cuor mondo un qualche spiritual dono Dio promotte di concederglielo".
Così detto il patriarca in compagnia del legato, con Baldovino e con gli altri cristiani che li seguiano a piè scalzi, si recarono con divozion grande al tempio, colà a lungo con umile accordo di bocche e di cuori, pregando Iddio perchè il fuoco che al tempo degli infedeli una volta all’anno solea scender nel Sepolcro, ei per misericordia volesse ancor in quel dì della sua Risurrezione, mostrar ai suoi fedeli. Pertanto, dopo aver pregato nel tempio, essi al sepolcro di Cristo ritornaron divotamente, e tosto il patriarca entrò per tre volte, con il legato, nell’ edicola del sepolcro, e alla terza in una di quelle lampade scese il fuoco. E così tutti allietati cantarono ad una voce il "Te Deum laudamus" e ascoltata messa solenne se ne andarono a lor ospizio a rifocillarsi. Frattanto nell’interno della chiesa in una delle lampade fuor del sepolcro il fuoco in cospetto di molti all’improvviso brillò; e risonando la voce di tanto miracolo per la città tutti accorsero, e mentre ciascuno stava guardando in alto, le lampade che pendeano, fuor dal sepolcro, in giro alla chiesa, si andarono una dopo l’altra accendendo per un certo vapor di fuoco che su friggea tra l’acqua e l’olio raggiungendo lo stoppino con uno scoppiettio di tre faville onde quel mettea la fiammella. Così, in chiaro modo, alla presenza di tutti, il dì della Risurrezione, dopo nona, il fuoco scese in XVI lampade. E Caffaro che fe’, di questo, dettato, v’era presente, ciò vide, e ne restò quindi testimone, onde ancor oggi ei fuor di ogni dubbio che così sia stato, qui afferma.
1101 ANNALI GENOVESI
I Genovesi poi, nella settimana delle feste pellegrinarono al Giordano, e dopo col re tornarono a Giaffa e tenuto consiglio si condusser su Azot, che guerreggiando presero in tre dì. E poi di maggio si rivolser contro Cesarea e tratte in secco lor galee, gli orti ne distrussero in fin alle mura, quindi dandosi a costruir castelli ed altre macchine d’assedio. Pel che due Saraceni usciron di città e così parlarono con il patriarca e col legato della Cuna: "Signori, voi che siete maestri e dottori della legge di Cristo perché comandate ai vostri che ci uccidano, e che rubin la nostra terra mentre sta scritto nella vostra legge che alcun non uccida altri fatto a somiglianza di Dio? E se è vero che ciò sia scritto nella vostra legge e che noi siam pur fatti a somiglianza del vostro Dio non c’è dubbio, voi contro la legge vostra operate". A costoro, dopochè molte altre cose ebber aggiunto diè il Patriarca questa risposta: "Ben è ver che la legge nostra ci vieta di rubar o di uccidere: nè ciò vogliam far noi, o comandarlo. Però questa città non è vostra; bensì già fu del Beato Pietro, e a lui spetta chè i vostri il vicario suo ne cacciarono colla forza. E se ora noi, che pur siamo vicarii del Beato Pietro vogliamo riprender la città sua, non vogliamo è chiaro, rubar il vostro. Circa l’uccidere poi così vi rispondiamo: Secondo giustizia in verità si deve uccider quei che è nemico alla legge di Dio, e contr’essa, a sua distruzion, combatte. Se questi venga ucciso non è contro la legge di Dio perchè Dio disse: di me fa vendetta e ti ricompenserò; percuoti ed io ti assolverò; nè c’è chi possa fuggirmi di mano. Perciò rendeteci questa terra del Beato Pietro e vi lasceremo partire salvi di persona e di roba. Che se ciò non farete Dio vi colpirà di sua spada e a diritto sarete uccisi. Ed or andate e ripetete ai vostri maggiori quanto avete udito". Ed essi tosto tornarono in città e all’emiro signore dei guerrieri, e al cadì capo de’ mercanti ripeteron per ordine le cose udite. Volea il cadì render la città, ma l’emiro disse: "non io lo voglio; ma bensì le nostre spade proviam con quelle de’ Genovesi e se Maometto ci aiuta, li respingeremo dalla città con lor disonore". Come poi i cristiani conobbero la superbia saracena, tosto il Patriarca disse ai consoli: "radunate il parlamento". E così fecero. E nel parlamento il Patriarca tenne al popolo un discorso: " Fratelli - egli disse - giacchè per servir Dio e il Santissimo Sepolcro siete fin qui venuti, è bene, è giusto che così ai comandi di Dio come agli ordini dei suoi fedeli, voi prestiate sincera obbedienza. Adunque Iddio mi manda a voi e per mia bocca vi comanda che in sul mattin di venerdì , che è il giorno della passion sua, nel quale per la vostra redenzione ei sopportò la temporale morte, ricevuta l’Ostia, non con castelli o con macchine ma soltanto colle scale delle galee principiate a salir le mura della città. Chè se ciò farete col pensiero di prenderla non pel valor vostro, ma per voler di Dio, io vi do’ profezia che Ei la darà in poter nostro prima dell'ora sesta; e gli uomini, le donne, le ricchezze, e tutte le cose che v’ha dentro". Finito il discorso gridaron tutti ad una voce "Sia, sia" E allora Guglielmo capo di maglio, console dell’esercito genovese si alzò e disse: "E su, su or voi da bravi, cittadini e guerrieri di Dio, ad adempir i comandi che il Signore v'ha pur ora dati per bocca del patriarca. Questi gli ordini: e voi datecene giuramento: venir voi, domattina dopo messa, senza indugi, e senza macchine e castelli, ma soltanto colle scale delle galee, dietro me, al muro della città, che io, se Dio lo voglia, comincierò primo a salir il muro, e voi certo, quando mi vediate montar su, non tarderete a imitarmi". E a giorno chiaro, poi, quanto ordinò si dieder con virile animo ad eseguire: e poi che furon contro il muro tutte le lore scale appoggiate, Guglielmo capo di maglio, console, mentre s’avendo appena corazza elmo e spada, saliva con molta compagnia dietro, verso il sommo del muro, solo ne restò in sul ciglio: chè la scala si ruppe, e quanti lo seguiano precipitarono. Avea quella città doppia cinta: e già tutti i Saraceni fuggiano verso il muro interno dietro cui si raccoglieano, e il console non vedendosi dietro compagno alcuno, si andava raccomandando per miglior consiglio a Dio: ed ecco ei tosto su lanciarsi per una torre: e mentre ei salia, un Saraceno, fuggendosene, gittarsi su lui, e l'un l'altro avvinghiarsi. Gridogli tra la stretta il Saraceno: "Lasciami: è pel ben tuo, chè tu potrai più presto salir sulla torre". E Guglielmo lasciollo e in fretta montò lassù. E dal sommo si sporse facendo segno colla spada e gridando ai suoi che si ristavano a piè del muro: "Via, salite, e la città d’un solo impeto prendete". E tutti allora s’inerpicarono, con eguale audacia per il muro, e di lassù balzarono a inseguir i Saraceni che fuggendo verso la cinta di mezzo cadean morti sotto lor furia. Altri Saraceni intanto da quel loro rifugio invocando Maometto chè non lasciasse lor città a’ cristiani presero a resister con dardi e con spade. Ma i Genovesi, che s’avean sull’omero destro il segno della croce, salendo su un albero di palma che coi rami s’incurvava sulle mura, irrupper in quel punto, con lor ferri, e il nome di Cristo sulle bocche, ne’ Saraceni. E subito questi spade ed armi gittando ripresero a fuggire verso la Moschea. Ma i Genovesi primachè vi giungessero quanti combatteano o sulle mura, o per la città o a canti delle vie, abbatterono morti. E allor tutti, in moltitudine, (i cristiani) corsero col patriarca alla Moschea: dove, al vederli, un migliaio di vecchi mercanti che su quella torre eran satiti si diedero a gridar rivolti a Damberto: "Signore promettici che non saremo uccisi essendo anche noi fatti a somiglianza di Cristo Dio vostro, e vi darem checchè abbiamo". E il patriarca allora chiestine i Genovesi, questi assentiron ch egli promettesse loro la vita : e quindi tutti andando per la città si tolsero uomini e donne e ricchezze assai; e quanto v’era fu loro. E la gesta di quel dì, come avea predetto Damberto fu, col favor di Dio per l’ora sesta cempita. Pochi giorni dopo Maurizio vescevo di Porto e legato del papa, ebbe, quindi, a consacrar più chiese in quella città e la maggiore, dov’era la Moschea e che adesso è sedia del vescovo in onor di S. Pietro; e un’altra in onor di S. Lorenzo. Ed ora in queste chiese e nella città tutta, cacciato da quei dì il diabolico Maometto, Gesù Cristo si adora e si onora.
Di poi i Genevesi con lor galee e l’esercito tutto si condussero presso Solino nella spiaggia di S. Parlerio, dove s’accamparono e dal bottino di guerra prima tolsero la quindicesima parte per le galee. Quanto poi rimase ripartirono tra ottomila uomini e a ciascuno per sua porzione toccarono XL.VIII soldi pittavesi, e II libbre di pepe, oltre le regalie che furon pur grandi ai consoli, ai piloti, e agli uomini scelti. Infine la vigilia di S. Iacopo apostolo intrapresero con le galee il viaggio di ritorno a Genova, cui con trionfo e con gloria giunsero nell’Ottobre. Correa l’anno 1101. Andarono i Genovesi con il primo esercito de’ Franchi contro Antiochia nel 1097 ; con l'esercito d'Africa nel 1088; col primo esercito di Tortuosa (di Catalogna) nel 1093; e allorchè fu presa la città di Gerusalem, nel 1099.

Nel febbraio poi, cominciò un altro reggimento di IV consoli per quattro anni. Si smise, nel primo di batter la moneta de’ vecchi denari pavesi, e andò in uso l’altra, nuova, de’ bruniti. E per quei quattro anni consoli del Comune e de’ placiti furono: Guglielmo Embriaco, Guido di Rustico di Reso, Ido di Carmandino, e Guido Spinola. A lor tempo i Genovesi con XL galee salparono per Geresolima: e tra molte altre vittorie, onde Genova s’avvantaggiò, preser combattendo Acaron e Gibelletto. La presa di Tortuosa di Soria accadde l'anno del Signore 1102, il primo di questo nuovo reggimento: ne fu il 1103 il secondo e terzo il 1104, e quarto il 1105.
E compiutisi questi quattro anni un altro reggimento si ricominciò di quattro consoli per ancor quattro anni così per il Comune come per i placiti. Furon questi consoli: Mauro di Piazzalunga, Iterio, Guglielmo Malàbito e Ottone Fornario. Salparono, a lor tempo, i nostri per Gerusalem, con LX galee, e approdati a Tripoli vi sbarcaron con molti castelli e altre macchine di guerra, prendendo, senza combattere quella città e l’altra di Gibello nelle quali si adoperarono perchè si consacrassero chiese e il nome di Gesù Cristo fosse lodato (e invocato). Pur nel primo anno di quel reggimento Boemondo si portò colla sposa sua di Francia a Genova, donde passò in Puglia, ov’essa un figlio gli generò a nome Boiamonte, ed una figlia; (e quei poi s’ ebbe alla morte del padre Antiochia)....

DELLA LIBERAZIONE DELLE CITTÀ D’ ORIENTE

PREFAZIONE DI JACOPO D’ORIA.

Poichè le cose che alla memoria solamente si affidano, cadono per nequizia del tempo in facile oblivione, così i filosofi e i savi antichi volsero per iscritto queste cose che stimavano doversi utilmente ai posteri tramandare. E siccome nella cronaca del Comune di Genova, da Capharo nobil cittadino genovese composta, nulla si trova della presa di Gerusalem, di Antiochia, di Tripoli e di molte altre città dell’Oriente alla cui conquista gli uomini di Genova mossero più e più volte con grande quantità di galee, di navi e di guerrieri, così io Jacopo d’Oria, investigando le scritture e i libri di messer Oberto d’ Oria, già mio avo paterno che le antiche cose di questa città ebbe per vero e mirabilmente a conoscenza, scopersi ne’ suoi scrigni una certa antica scrittura dal predetto Cafaro composta, contenente la presa di Gerusalem e di molte altre città, della quale feci scrivere un esemplare in questo libro, niente aggiungendo e neanco sottraendo, acciò che quelle imprese qui siano a chi legge manifeste.
EXPLICIT PRAEFATIO.

INCIPIT LIBER CAFARI.

SICCOME dall’origine del mondo tutte o quasi le cose che sono o furon fatte, dai dottori e dai savi furono scritte e raccontate, così sembra essere cosa buona e utile che dalla presente scrittura di Caffaro conoscasi il vero, e cioè in quale modo e in quale tempo le città di Gerusalem e di Antiochia, e con esse le altre città orientali e i paesi marittimi, dalla servitü dei Turchi e dei Saraceni siano state liberate.
Dunque sia manifesto all’università degli uomini presenti e futuri che al tempo di papa Urbano secondo, di buona memoria, il duca Gotofredo con il conte Frandalense (Roberto I il Frisone, conte di Fiandra) e con altri nobili uomini, desiderando visitare il Sepolcro del Signore, vennero a Genova e quivi salirono sopra una nave genovese che si chiamava la Pomella e indi con i Genovesi ad Alessandria se ne andarono; di là con uomini d’arme saraceni che li condussero infino alla porta della città, avviaronsi a Gerusalem. E poichè dalla porta voleano entrare per visitare il Sepolcro del Signore, incontanente i custodi l'ingresso proibirono, se ognun di loro un bisanto per l'ingresso, secondo che era l’uso, non avesse dato. I Cristiani che colà per il servizio di Dio erano venuti, poichè la volontà dei Saraceni conobbero, ciò che questi richiedevano cominciarono a dare. Però il duca Gotofredo, che era dei più ragguardevoli, e il bisanto come gli altri tanto presto non potè dare perciocchè il servo che il suo danaro portava erasi alcun poco da lui allontanato, mentr'egli a sè lo chiamava, uno dei custodi diede sul collo del duca un grosso pugno, e questo il duca pazientemente sopportò; ma pregò Iddio che di così grande offesa gli concedesse avanti morte di far vendetta con la spada. Dato il bisanto, ii duca entrò con gli altri dalla porta, e il Sepolcro del Signore e gli altri santi luoghi e il presepe di Bellehem (Betlemme) adorarono e al fiume Giordano, dove Cristo fu da Giovanni battezzato, arrivarono. Passati tre giorni da quando giunti erano a Gerusalem, fecero con gli uomini d’arme che li aveano condotti, ad Alessandria ritorno. Di là per mare, sulla stessa nave Pomella, con i Genovesi fino a Genova navigarono.
Da Genova il duca Gotofredo, senza porre indugio, affrettò il viaggio a Sant’Egidio (Saint Gilles di Provenza) e quivi con Raimundo conte di Sant’Egidio (Raimondo IV, conte di Tolosa, detto Raimondo di Saint Gilles) e con molti altri conti e baroni di quelle parti tenne parola della liberazione del Santo Sepolcro. In questo consiglio accordandosi, che nel dì prossimo di santa Maria si radunassero al Poggio (Oggi Le Puy-en-Velay, capoluogo dell’Alta Loira) e quivi ciò che in servizio di Dio fatto avrebbero, esponessero e firmassero. Come nello spazio avanti quel termine s’era sparsa per quelle parti pubblicamente la voce, così dodici furono i convenuti in santa Maria del Poggio che del predetto servizio di Dio desideravano trattare, i quali per tre giorni disputarono come il viaggio di Gerusalem compir potessero. Accadde che nella notte del terzo giorno a uno dei dodici, di nome Bartolomeo, l’angelo Gabriele apparve in sogno disse: "Lèvati, Bartolomeo! - E quegli: Chi sei tu, signore? - L’angelo del Signore io sono, e volontà è del Signore che il suo sepolcro sia dalla servitù dei Saraceni liberato; perciò prenditi questa croce che ti faccio sull’omero destro e co' tuoi compagni va di buon mattino al vescovo del Poggio (Ademaro di Monteil, morto poi in Antiochia nel 1098) e mostragli la croce che ti ho fatto, e digli che mandi teco un suo legato a papa Urbano ehe in queste contrade senza indugio venga e predichi al popolo il viaggio di Gerusalem in remissione dei peccati".
Così fu fatto. Udita la visione angelica, il papa senza indugio si pose in cammino e venne al Poggio. Quivi, adunata una moltitudine di nobili uomini, di principi, di conti e di duchi, e d’ogni genere di Cristiani, ricchi e poveri, maggiori e minori, il papa a ciascuno comandò la via del sepolcro in remissione di tutti i peccati. Finito il comando apostolico, tutti incontanente, maggiori e minori, ricevettero con umiltà dalla mano apostolica sull’omero destro la croce del Signore; tra i maggiori Raimundo conte di Sant'Egidio, Gotofredo duca di Bugnone (Buglione), per ammonizione del quale le predette cose furono intraprese, e Balduino fratello di lui, e il conte Frandalense, Ugone Magno, Boiamundo, Tanclerio, e molti altri che i loro nomi lungo sarebbe dire. Il numero delle migliaia di genti, secondo quello che Caffaro udì, fu di sessantamila uomini d’arme. E presero la città di Nichia (Nicea) nell’ anno 1097; e tanta fu la grazia che Iddio a ciascuno concesse, che in tutto il viaggio furono in concordia e in umiltà e senza danno alcuno delle persone tutti infino ad Antiochia arrivarono.
Prima che i predetti principi da quelle contrade si dipartissero dove ricevuta aveano la croce e l'apostolica benedizione, il papa per lor preghiera mandò due vescovi a Genova, il Grazianopolitano (Ugo di Chateauneuf-d’Isère, vescovo di Grenoble). e l’Aurisiacense (Guglielmo I, vescovo di Orange). Venuti senza indugio i vescovi a Genova, nella chiesa del beato Siro il popolo genovese tutto insieme e imprimamente fecero adunare, e quivi, secondo che il papa ordinato aveva, narrarono l’apostolica legazione a servizio di Dio e del santo Sepolcro, in remissione di tutti i peccati. Così che per liberare la via del Sepolcro del Signore andassero con le galere alle terre d’oriente, e in compagnia dei predetti principi virilmente si rimanessero combattendo; della qual cosa i vescovi affermavano che avuto avrebbero il premio della vita eterna. Finito il sermone e la legazione apostolica udita, molti Genovesi tra i migliori presero in quel giorno la croce, e furono: Anselmo Rascherio, Oberto figlio di Lamberto di Marino, Oberto Basso di Isola, Ingone Flaono, Dodone di Advocato, Lanfranco Roza, Pasquale Noscenzio, Astorre, Guillermo di Bonsignore, Opizzo Musso ed altri molti che furon così numerosi da armare di fortissimi guerrieri dodici galere e un sandalo (Specie di barca (CRUSCA) ; e nel mese di luglio impresero il viaggio verso le terre d’oriente. Passati pochi giorni, arrivarono ed entrarono nel fiume di Solino, che chiamasi il porto di San Simeone (All'imboccatura dell’Oronte, verso tramontana, ant. Seleucia, ora Soneidièh). e lungi è da Antiochia il cammino di dieci miglia. Allora i cavalieri dei Franchi, i quali innanzi che i Genovesi arrivassero, erano da un mese venuti ad Antiochia ed aveano posto fuori della città gli accampamenti, quando udirono essere giunti i Genovesi, Boiamundo figlio di Roberto Guiscardo duca di Apulia con cento cavalieri dell’esercito recossi a grande fretta al Solino dove i Genovesi erano, e da parte dei principi e di tutto l’esercito, acciò che andassero ad Antiochia, con molte preghiere cosi li ammonì e cominciò a esortarli: "O fratelli e compagni della santa guerra, poichè per servire Iddio in queste terre siete venuti e il premio averne desiderate per la pace delle anime vostre, così noi molto vi esortiamo a sostenere in comune il peso della guerra e delle fatiche e a travagliare in quanto ci è dato". I Genovesi, dopo che le preghiere dei principi per mezzo di Boiamundo udirono, preser tra loro consiglio di mandare all’esercito seicento tra i migliori uomini d’arme in compagnia di cavalieri. E li mandarono. Infra tanto mille soldati Turchi da Antiochia celatamente venner fuori e andarono incontro ai Franchi e ai Genovesi. Boiamundo, allorchè conobbe che così grande moltitudine di soldati Turchi contro lui avanzava, incontanente con venticinque dei Genovesi che aveano cavalcatura avviossi a corsa all’esercito, a tutti annunziando come i Turchi contro lui fossero usciti. Allora i Franchi con il medesimo Boiamundo, avanti che egli scendesse da cavallo, montarono com’un sol uomo in arcione, e presero a correre Contro i Turchi. Ma intanto questi, circondando e saettando i Genovesi che in campo erano restati con le armi in pugno e pur con le spade e con le lance resistevano a tanta moltitudine di soldati, tutti alla fine in mezzo alla campagna feriti e morti li lasciarono; questi, prima degli altri che la via del Sepolcro avevano intrapresa, si ebbero subito la corona del martirio e come martiri di Dio gli angeli nella sede celeste in compagnia dei Macabei li posero. Per contro i Turchi della strage dei martiri genovesi molto rallegrandosi, si affrettavano a ritornare ad Antiochia. Ma Boiamundo e i cavalieri che con esso andavano alla difesa dei Genovesi, prima che i Turchi in Antiochia entrassero, tutti quelli medesimi, che i Genovesi uccisi aveano, uccisero e alle pene infernali in compagnia di Maometto li mandarono, e con trionfo fecero ritorno agli accampamenti.
Il giorno seguente posero le tende presso la porta di Antiochia e mandarono a dire agli altri Genovesi che al fiume Solino erano rimasti a guardia delle galee, e non si movevano, che non tardassero a venire con le armi necessarie alla battaglia di Dio per prendere la città di Antiochia. I Genovesi, udita l’imbasciata dei principi, prestamente con armi e tende e con tutte quelle cose che alla guerra sono necessarie, vennero ad Antiochia, e presso le tende dei principi posero le tende loro ed ogni giorno con cavalieri e con fanti dei Franchi fortemente combattevano presso la porta della città avverso i Saraceni; e tuttodì guerreggiando, di giorno in giorno molti incomodi ed ogni angustia di cibo, di vesti e di tutte quelle cose che al corpo son necessarie, doverono sostenere, dal mezzo dell’ottobre quando i Cristiani aveano cominciato ad assediar Antiochia (e correva allora l’anno del Signore 1097) fino al mese di febbraio. Ma Iddio che a’ suoi fedeli sempre suole sovvenire, così ai Cristiani che tutto in pazienza sofferivano, tal consiglio diede e tale aiuto che nella settimana di carnevale settanta cavalieri Cristiani con molti fanti andarono al Ponte di Ferro (Oggi Djisr-el-Hadid, sulla strada da Antiochia ad Aleppo) a otto miglia da Antiochia. Quivi tremila cavalieri Turchi, con gran copia di fanti che da Antiochia erano usciti, avean posto le tende ad offesa dei Cristiani. Presso queste tende dei Turchi i cavalieri Cristiani catturarono arditamente cinquecento bellissimi cavalli e molte vesti preziose lasciate dai Turchi senza difesa, e nel venerdì della settimana predetta cominciaron la battaglia con i Saraceni. Venuta la sera, i Saraceni, stupefatti e presi da timore, abbandonarono le tende ed entrarono in fuga nella città. I Cristiani le tende raccolsero e tutto ciò che quelli abbandonato avevano e con letizia tornarono agli accampamenti. Da quel giorno i Turchi che in Antiochia erano fuggiti e tutti gli altri che dentro stavano, così fecero che non vollero più guerreggiare con i Cristiani fuor delle mura.

Intanto accadde che due Turchi, che fratelli erano ed avevano in custodia due torri della città chiamate le sorelle, mossi dallo spirito divino fecero dire con certezza a Boiamundo che farsi Cristiani volevano e consegnare le torri. Incontanente Boiamundo radunò i principi dell’esercito e disse loro: "Cose segrete vi confido. Se a me volete lasciare la presa di Antiochia, ebbene, senza indugio alcuno per misericordia di Dio noi possiamo averla in nostre mani. Tutti subito risposero: Diamo a voi potestà e confermiamo". Allora Boiamundo fece venire segretamente alle tende dei principi quei Turchi che promesso aveano di consegnare le due torri. Quelli senza indugio vennero e prestamente dal vescovo del Poggio furon fatti cristiani e battezzati, e da tutti i principi molti e grandi doni riceverono, come vesti preziose e vasi molti d’argento, e novelli cristiani furono chiamati. Questi nella notte guidarono Boiamundo e cento uomini armati sull’alto delle due torri. Quando l’alba fu venuta, tutti quelli che saliti erano, dalle torri discesero e in mezzo alla città con molte e grandi voci non cessarono di gridare Chyrieleyson!, Chyrieleyson!; finchè i Saraceni che nella città erano, udendo le voci di Cristo, prima stupefatti e poi presi da timore, altri dalla città fuggendo, altri nella rocca rifugiandosi, la città ai cristiani abbandonarono. Di questi, quelli che eran fuori della porta quasi tutti uccisero i Saraceni che uscivano; quelli che nella città erano entrati e gli altri che giù venivan dalle torri, le case e tutto quello che dentro v’era presero e tennero in comune. I Turchi che salivano alla rocca e quelli che di là discendevano, e che spesse volte nel giorno eran posti a guardia infino alla metà del monte, stringevano con i Cristiani battaglia. Questi, Genovesi e Franchi, molti dei Saraceni ferivano e abbattevano.
Passati quindici giorni dalla conquista di Antiochia, Corbonam (Kiwani-ed-Daula - Kerbogha, principe di Mossul), principe di tutti i Turchi di Persia, ad Antiochia venne e cominciò l'assedio; e dopo pochi giorni il constamulario (Conestabile) di lui, il Leone Rosso (Kilgi-Arslan, sultano d’Iconio, il "Rouge-Lion della ~ Chanson d’Antioche")., per comando del suo principe venne anco esso ad Antiochia, e con lui centomila soldati Turchi vennero con le mogli e con i figli e con molto argento ed oro e vesti preziose ed ogni specie d’animali da potersi trarre seco, come cavalli, bovi, capri, montoni e cammelli, e presso ad Antiochia posero le tende che tutte insieme occupavano lo spazio di dieci miglia. I Cristiani che dentro erano, quando conobbero che un esercito di così grande moltitudine di Turchi da ogni parte li assediava, grandemente intimoriti per la penuria del cibo degli uomini e dei cavalli, grave così che per una testa d’asino pagavansi venti soldi pittavini (Moneta dei Conti di Pittavia (Poitiers), pregavano tutti il Signore che nelle angustie li soccorresse. E i vescovi e i buoni chierici che con essi erano, tenevano a tutti sermone, e il vescovo del Poggio, in nome di tutti gli altri vescovi e chierici, così parlò: "O fratetli e soldati di Dio che per l’angelico annunzio da Dio mandato, e per Bartolomeo uomo giusto e buono che dall’angelo la croce sull’omero ricevette e fè palese l’angelica apparizione, e per la visione di papa Urbano questo viaggio intraprendeste e veniste a queste terre in remissione dei peccati, non vogliate nè paventare nè temere. perchè quello che Dio promette ai fedeli suoi non tralascia di mandare a compimento; onde per tre giorni in digiuni e in orazioni ordiniamo a voi tutti di rimanere; passati i tre giorni muoveremo arditamente con l’aiuto del Cielo contro i nemici di Dio". Ciò udito, tutti incontanente intrapresero il digiuno e le orazioni, e le mura e le torri della città da ogni parte custodivano in armi. I Turchi, avvininandosi tutti i giorni alle mura, deridevano i Cristiani e dicevano: "Perchè i vostri corpi mortificate con la fame e col freddo, e mangiate carni di cavalli e di asini, di che solo i cani e gli uccelli, non gli uomini, vivono?". E mostravano sulle mani il pane bianco e mangiando dicevano: "Restituite a noi la città e credete nel nostro Dio, e poi sarete amici nostri e vi daremo oro e argento e tutte le cose che bisognate; se questo non farete, noi tutti vi ammazzeremo". E i Cristiani rispondevano: "Tacete, cani arrabbiati, che il Dio nostro è grande e misericordioso, e getterà voi sotto i nostri piedi". Intanto i principi dei Cristiani che in digiuni e in orazioni Si rimanevano, mandaron nunzii a Corbonam, Pietro eremita e un tal sacerdote (Erluino, interprete), per indurlo a lasciare con tutto il suo esercito quella terra che era terra di Pietro. I nunzii senza indugio partirono e come i principi aveano ordinato, ferero l’imbasciata. Corbonam disse loro: "Voi parlate da stolti e da ingiusti. Voi siete venuti da lontane regioni e la nostra terra agli uomini nostri avete ritolta a tradimento. Perciò dite ai vostri signori che ci rendano la terra nostra, e noi li lasceremo partire senza offesa". I nunzii, dopo molte parole ch’ebbero dette e ascoltate, questo vollero proporre alla fine, se Corbonam accettare lo volesse: che cinque Cristiani con altri cinque Saraceni facessero battaglia, e a chi la vittoria si avesse, la città di Antiochia dall’una e dall’altra parte sarebbe lasciata. Corbonam ciò non volle per alcun modo accettare.

Quando i nunzii fecero ritorno, tutte le cose come ascoltate le avevano, ai vescovi e ai principi raccontarono. Questi, udita la risposta dei Turchi, ricevettero dai vescovi consiglio che per tutto quel giorno in orazione rimanessero e pregassero Iddio che alle lor voci porgesse orecchio e mostrasse loro in misericordia la via sicura per muovere a battaglia contro i nemici. Fatte le orazioni e la prima notte venuta, l’apostolo Pietro apparve in sogno a Pietro eremita e dissegli che il giorno veniente tutti i vescovi e tutti i principi insieme chiamasse, e a tutti rendesse aperta quella visione, che volontà di Dio si era che nella sua chiesa cominciassero a scavare, e fatta una fossa di grande altitudine, la lancia onde Cristo sulla croce fu ferito nel fianco, con divozione prendessero e senza dubitare con quella lancia andassero a battaglia contro i Turchi. E così fu fatto. Il dì veniente, come avea detto Pietro eremita, la lancia di Cristo trovarono e la presero con grande divozione; e venuta la sera tutti raccolsero quanto frumento e quanto orzo ognuno si avea, e in comune lo posero e di quello ai cavaili diedero a mangiare a sazietà, acciò che più forti andassero alla battaglia; e il giorno dopo celebrarono la messa e presero con divozione il corpo del Signore. Poi sette schiere di combattenti siffattamente ordinarono: che il conte Raimundo con la sua schiera e con due altre di principi andasse da un lato alla battaglia; dall’altro lato il duca Gotofredo con la sua schiera e con due altre di principi contro i Turchi combattesse. Nella schiera del mezzo rimase il vescovo del Poggio con tutti i sacerdoti e i chierici che in Antiochia erano, e seco avevano la lancia di Cristo da essi ritrovata; e Boiamundo e Tanclerio li seguivano con i loro cavalieri.

I Turchi ch’erano fuori, cavalieri e fanti, stavano per metà da un lato sulle armi; l’altra metà dall’altro lato similmente era pronta con le armi. Nel mezzo delle due parti dei Turchi era un grande spazio. I Cristiani, fuori uscendo, in questo modo incamminaronsi alla battaglia. Il conte Raimundo da un lato con le sue schiere, e il duca Gotofredo dall’altro lato con le sue, cominciarono avverso i Turchi arditamente a combattere. Il vescovo che tenea la lancia di Cristo, e con lui tutti i chierici, avanzavano per lo spazio di mezzo con Boiamundo e Tanclerio che li seguivano armati, e tutti cantavano ad alta voce: Surge, Domine, iudica causam tuam et veni! E come all’estremo dello spazio si furono, e conobbero esser giunti alle spalle dei Turchi, allora videro avanzarsi molti cavalieri d’armi bianche armati, che in alto teneano molte bianche insegne, i quali dicesi e fu detto che gli angeli erano del Signore. E come alla lancia di Cristo furon vicini, tutte le insegne che i bianchi cavalieri portavano, alla lancia s’inchinarono. I Turchi, quando così gran numero di cavalieri videro avanzare alle loro spalle, presi da timore, abbandonarono armi e tende e tutti i vasi d’oro e d’argento e le vesti preziose ed ogni cosa che seco avevano. I Cristiani inseguendoli e ferendoli e uccidendoli, arrivarongli sulle calcagna fino al Ponte di Ferro e quasi tutti morti sul campo li lasciarono. Ritornando poi ad Antiochia, tutte le cose raccolsero che i Turchi nella fuga gettate aveano e incolumi in Antiochia tutti insieme convennero e la città diedero a Boiamundo come avevano promesso. Boiamundo concesse loro il privilegio di Antiochia come è scritto nel registro nell’anno del Signore 1098 al mese di luglio.

Di poi il camerario Giovanni (Caffaro è il solo a rammentare questo personaggio) mandaron nunzio al principe di Babilonia che si chiamava Levealmerado (L’emiro Afdhal ed-Djoujousch, vizir di Mostalì califfo d’Egitto), acciò che desse e concedesse ai cavalieri Franchi salvocondotto e mercato per le cittá marittime e pei borghi infino a Gerusalem. Il principe di Babilonia onorevolmente accolse il legato dei Franchi e diedegli ricchi doni; e di più diede un suo nunzio che a tutte le città e a tutti i borghi marittimi comandò che mercato ai cavalieri Franchi concedessero. Poi che i principi Cristiani udirono dal nunzio l’onore fatto dal principe di Babilonia alla loro ambasceria, incontanente impresero il cammino Gerosolimitano. Quando a Gerusalem arrivarono e posero assedio alla città e arditamente combattendo s’accamparono, videro che tutte le cisterne d’acqua fuor delle mura erano distrutte, onde ogni giorno andavano per acqua al fiume Giordano. E assediata ch’ebbero per un mese la città, ecco che Guillermo Embriaco genovese e Primo, fratello di lui, vennero con due galee in Jope (Giaffa) e per timore dei Saraceni di Scalona (Ascalona) quivi non poterono le galee tenere; perciò le distrussero e tutto il legname delle galee, chè alle macchine da prendere la città serviva, fecero portare a Gerusalem. I Cristiani, che molto allietati si erano per l’arrivo dei Genovesi, li ricevettero con onore, e da essi presero in ogni cosa consiglio sul modo di assaltare la città. Fecero i Genovesi le macchine e tutto il necessario; entro quaranta giorni tutta la città, all’infuori della torre di David, fu presa; e i Saraceni della città uccisero. Quelli della torre di David, che rendersi non volevano, mandaron nunzii al principe di Babilonia acciò che con l’esercito suo venisse e liberasse la torre. Venti giorni passati, i Saraceni che al principe mandati avevano, ritornarono, e diedero la torre ai Cristiani (In questo luogo Caffaro non s’accorda con gli altri scrittori della Crociata, secondo i quali la torre di David si è arresa al conte Raimondo nel giorno della presa di Gerusalemme). Questo fu nel mese di luglio, e correva in quel tempo l’anno del Signore 1099.

Consegnata la torre e passati tre giorni, il principe di Babilonia con un grande esercito di cavalieri e di fanti in armi venne nella pianura di Ramula (Er Ramlèh). I Cristiani che in Gerusalem erano, insieme convennero e il regno diedero di Gerusalem in tutela e custodia al duca Gotofredo e lui fecero signore del regno e di tutte quelle terre e con lui nella pianura di Ramula andarono senza indugio a battaglia contro i Saraceni. Era la battaglia appena incominciata, che i Saraceni, volgendo le spalle, il campo abbandonarono. I Cristiani li inseguirono e fecero di loro strage e presero gli accampamenti, e tutto quello che i Saraceni lasciato aveano, le tende e le altre cose, raccolsero, e in Jope tutti insieme convennero; e Gotofredo, al quale la signoria del regno avean data, quivi lasciarono. Di tutti gli altri desiosi di passare il mare alcuni al porto andarono di Laudicea (Laodicea di Siria o ad mare, oggi Latakièh. Il codice di Parigi dice Lauriciae), altri al porto di San Simeone e saliti sulle navi varcarono il mare, e molti rimasero nelle terre d’oriente. Invece Raimundo conte di Sant’Egidio a Costantinopoli andò. In quanto ai Genovesi, cioè Guillermo Embriaco e suo fratello Primo, che le due galee portate aveano in Jope e del legname ne fecero macchine, onde Gerusalem fu presa, i predetti fratelli un grande e immenso tesoro d’oro e d’argento e di gemme tolsero al principe di Babilonia quando fu superato dall’esercito dei Franchi e il campo abbandonò. Questi fratelli con tutto il denaro che catturato avevano, e sopra una galea da essi comprata, traversarono il mare e vennero a Genova la vigilia del Natale del Signore, seco portando lettere della presa di Gerusalem e del soccorso necessario, come ricevute le aveano dalla curia Gerosolimitana, cioè dal patriarca Dumberto e da Gotofredo signore del regno di Gerusalem. 1100.1101
Dopo che i Genovesi le lettere ascoltarono che ammonivano al soccorso del Sepolcro del Signore, incontanente le guerre cessarono e le discordie che tra loro avevano, onde per un anno e mezzo senza consolato e senza concordia eransi rimasti, e deposero le armi e tanti furon quelli che presero la croce che XXVI galere e quattro navi arditamente al porto di Laudicea condussero cariche di pellegrini per il servizio di Dio e del santo Sepolcro. Le predette lettere di Gerusalem i Genovesi mandarono per le città di Lombardia e per i borghi. Per la qual cosa gli uomini di Lombardia, i chierici e i laici, il vescovo Mediolanense (Anselmo da Bosisio, vescovo di Milano) e il conte Brandionense (Conte di Biandrate), e con essi molti conti e marchesi con un grande esercito di cavalieri e di fanti, a Costantinopoli andarono. Quivi trovarono Raimundo conte di Sant’Egidio che seco avea la lancia di Cristo, e con esso il viaggio impresero di Gerusalem; ma la via fatta dai principi Franchi quando presero Antiochia, non vollero fare. Così che i Turchi di Corrizana (Korassan) vennero ad incontrarli e fecero con essi più volte battaglia, infino a che i Cristiani furon per loro stoltezza quasi tutti morti o feriti e gli accampamenti perderono e la lancia di Cristo. Quelli che fuggirono, a Costantinopoli con il conte Raimundo ritornarono. Invece i Genovesi che al porto di Laudicea erano andati, tutto l’inverno ivi si fermarono; e seppero che Gotofredo signore del regno di Gerusalem era morto e che Boiamundo signore di Antiochia era prigione in Corrizana. Quando i Genovesi videro la terra di oriente senza re e senza principe al par di vedova, così con Morizio vescovo Portuense e legato della Romana curia (Maurizio, vescovo di Porto Romano, inviato in Palestina come Legato Apost. del Papa Pasquale II -v. FRANC. ANSALDO- Atti Soc. Ligure di Storia Patria -vol.1, pag. 68) si consigliarono, che mandaron nunzii alla città di Edessa, la quale Balduino fratello del duca Gotofredo erasi per sè presa, acciò che egli a loro venisse. E quegli senza indugio venne, e fattagli preghiera dai consoli e dal legato della Romana curia, lo posero re in Gerusalem, e Tanclerio, nipote per sorella di Boiamundo, posero in Antiochia, come la presente scrittura di Caffaro racconta. Ed egli concesse loro e confermò il privilegio che ebbero da Boiamundo figlio di Roberto Guiscardo signore di Antiochia, e nell’estate veniente verso Gerusalem con navi e con galere avviaronsi ed ogni cosa arditamene fecero, come in questo libro di Caffaro è scritto.

Presa ch'ebbero Antiochia i principi Franchi tutte le cose compirono come dice Cafaro nella precedente scrittura. E poichè i nomi delle città e dei borghi che sono lungo il mare, da Antiochia fine ad Jope e fino a Scalona, scritti non sono, così é necessario che a memoria di Cafaro siano qui segnati i nomi e le miglia, quante sono da una città all’altra, e da chi le città furon prese e in quale tempo. Perciò sia a tutti manifesto che da Antiochia a Laudicea si contano sessanta miglia. Laudicea fu città grande; era lunga e larga assai. Ma nel tempo della presa di Antiochia era deserta, fuor che la chiesa episcopale dove i chierici dimoravano. Allora tenevano la città i Greci per Alessio imperatore Costantinopolitano, e anco tenevano due castelli, che in alto erano, e due torri vicino alla bocca del porto. Vi stava dentro un arconto, che il prefetto era dell’isola di Cipro e si chiamava Filocario (Eumazio Filocalo), e vi teneva salandre (Chelandie, navi tonde da trasportare cavalli e soldatesche e molti cavalieri e clienti. 1101
Da Laudicea a Gibello maggiore (Giebleh) si contano dieci miglia, ed era dei Saraceni. E da Gibello a Turcuosa (L’antica Antiarado, oggi Antartous) dicono essere trenta miglia, e anche quella i Saraceni tenevano. Fra queste due città, a mezza strada, eranvi e sono due città più piccole lungo il mare; una che si chiamava Vananea (Ant. Banias, poi Valenia, oggi distrutta), l’altra Marachia (Maraclea, ora Marahieh). Tenevano Marachia quei Greci che abbiam detto di Laudicea, Vananea i Saraceni; fino a Marachia si contano otto miglia.
Nel cammino fra queste città, e nel mezzo proprio del cammino, sopra un monte lontano dal mare un miglio, eravi ed è un castello di nome Margali (Margat, oggi Merkab) che i Saraceni tenevano, ed era di molta e immensa e così grande fortezza, che solo con la fame prendere si poteva. Ma in quale modo fu preso dopo la conquista di tutte le città e dei borghi, or ora si sappia da Caffaro la verità. Il signore di questo castello faceva molto male ai Cristiani. Dunque accadde che un tale francigeno, di nome Rainaldo Mansuer (Rainaldo II le Mazoir), figlio dell’altro Rainaldo conestabile del principe di Antiochia, e signore di Marachia e di Vananea, fece tregua con quel Saraceno, e cominciarono l'uno all’altro a scambiarsi molti segni di amicizia; tanto che il Saraceno veniva spesso a Vananea a motivo di trattenersi con il detto signore della città. Eravi nella città un bel bagno, e fuori v’erano pomarii belli e doviziosi fra mezzo a giardini, dove il Saraceno e il Cristiano soventemente per quattro e più giorni insieme si rimanevano mangiando e bevendo, come è l’uso dei Saraceni. E dopo al castello se ne andavano che abbiamo detto, e insieme ancora si rimanevano per quattro e cinque giorni in banchetti e libazioni che non venivano a fine. Come fatte ebbero queste cose per molti giorni, accadde che una volta il Cristiano andò al castello con tutti i suoi che corazze e spade portavano celate sotto le vesti; presero il castello e misero fuori il Saraceno. Di qui nacque grande letizia per le parti d’oriente, perchè questo castello era la chiave della strada di Gerusalem lungo il mare. E allora correva l’anno del Signore 1140.

Ma convien ritornare a Turcuosa. Di là a Tripoli sono quaranta miglia, e da Tripoli a Gibelletto (o Byblos, oggidi Giebail) venti miglia, e di qui a Bareut si contano per terra venti e per mare ventidue miglia. Da Bareut a Sidone venti, e da Sidone a Tiro venti, e venti da Tiro ad Acon (San Giovanni d’Acri, Akka), e da Acon a Caifa dieci, e da Caifa sino a Cesaria venti; da Cesaria ad Azoto (Oggi Arsouf) venti e da Azoto ad Jope dieci e dieci da Jope a Scalona. Ramula è distante da Jope il cammino di due miglia. La città di Gerusalem è situata nelle montagne, di là e fino alla marina di Jope sono venti miglia. Tutte queste miglia sono scritte secondo il giudizio di Caffaro, perchè spesse volte, per terra, da Antiochia infino a Jope Caffaro andò cavaliere, e per mare navigò; e ripensando al giudizio che allora si è fatto, fece il conto delle miglia, come è detto sopra.
Ora che i nomi delle città e le miglia sono descritti, convien che Caffaro faccia manifesta la verità sul modo che dette città furon prese e da chi e in quale tempo. Dunque vero e che la città di Gerusalem fu presa dal predetto esercito dei Franchi e da certi Genovesi, che erano Guillermo Embriaco e suo fratello Primo, e da molti altri uomini d’arme di Genova, che le macchine vi fabbricarono, per ingegno dei quali la città fu presa nel mese di luglio del 1099, come nel libro di Caffaro è scritto. Delle altre città nominate, ben che in tempi diversi siano state prese, tuttavia dir devesi cominciando dalle prime conquiste. E così furono i Genovesi e con essi il re Balduino che presero Cesaria ed Azoto, e correva in quel tempo il mese di luglio dell’anno 1101. Prese ch’ebbero queste due città, i Genovesi, ritornando a Genova e venuti in Romania, Si scontrarono in val di Compar (Itaca) con la flotta dell’imperatore Costantinopolitano, della quale era capo Landulfo, ed era di LX salandre. Di queste i Genovesi VII ne presero, e il fuoco appiccatovi, così le lasciarono; poi con XXVI galere contro le altre cominciarono a muovere con l’armi per catturarle. Quando il capo vide che i Genovesi con tanta fierezza gli venivano contro, mandò a loro un suo legato per pace e per concordia, e così accordatisi vennero insieme alla città di Curiofo (Corfù), e di là i Genovesi mandarono, accompagnati dal detto Landulfo, lor nunzii ad Alessio imperatore, Rainaldo di Rodulfo e Lamberto Gheto (Forse il Lamberto Guezo console del Comune negli anni 1114 al 1117 v. "Notizia dei Vescovi Genovesi"). E mentre nella detta città di Curiofo già da tre giorni dimoravano, arrivarono da Genova VIII galee con VIII górabi (Specie di antichi bastimenti d’onde sono venute a noi le caracche e le caravelle) e una nave grossa, tutte cariche di cavalieri genovesi e di pellegrini, e all’isola di Curiofo per due giorni si fermarono; e questi dagli altri Genovesi che da cesaria venivano sentiron dire della fortuna a quelli toccata, e insieme ne parlarono, e così con lieto animo gli uni dagli altri si divisero.

Quelli che con le VIII galee, i górabi e la nave grossa erano venuti (stava sulle galee Mauro di Piazzalunga e sulla nave Pagano di Volta, e l’uno e l’altro con molti altri nobili uomini) a Gerusalem andarono e il Sepolcro del Signore visitarono. Fatte le visite, fecer cammino a Turcuosa e con Raimundo di Sant’Egidio che da Costantinopoli tornato era nelle parti d’oriente, Turcuosa presero con l’assedio, e allora correva l’anno del Signore 1101. Conquistata la città, venne una grande moltitudine di Turchi e cominciò ad assediarla; così che i Cristiani che dentro erano e chiuse aveano le porte, si stavano in grande timore. Accadde però che una notte la potenza di Dio, che non abbandona quelli che in lei confidano, questo miracolo mostrò ai Cristiani, che le campane, non toccate, suonarono e le porte della città da loro stesse aprironsi; così che i Cristiani ebber timore che ciò fosse stato per opera di traditori. Ma quando conobbero che un miracolo di Dio era stato, tutti incontanente i Cristiani che nella città erano, usciron fuori a battaglia e con ferire e con uccidere, i Saraceni inseguirono fino a Tripoli, e morti li lasciarono sul campo.
Il conte di Sant’Egidio, che il capitano era stato della vittoria, cominciò di poi ad assediare Tripoli e lungi dalla città un miglio pose un castello che Si chiama il monte Peregrino (Hons Sandgil degli Orientali), dove mura e torri e molte case costrusse, e dove molti Cristiani cominciarono a venire da ogni parte ad abitare. Tutti i giorni il conte faceva guerra senza riposo con i Saraceni e li teneva stretti con grande paura. Accadde poi che il conte prese moglie, e da questa ebbe un figlio di nome Anfos. Bisogna dire che il conte quando si mise per mare, lasciò a guardia di tutta la sua terra un certo suo bastardo di nome Beltramo Zavata (Bertrando di Raimondo IV di Saint-Gilles e della sua prima moglie, figlia del conte Bertrando 1 di Provenza; si reputava bastardo a cagione dello scioglimento di matrimonio dei suoi genitori pronunciato dal papa perchè erano cugini germani) perchè altri flgli non aveva. Natogli dunque questo figlio Anfos e costruito il monte Peregrino, stette il conte all’assedio di Tripoli fino a che vennero i Genovesi per prendere Acarunte (Il codice citato dice ad captionem Acharuntis. Ma si tratta di Acon - Akka, S. Giovanni d’Acri) e Gibelletto; e quando essi vennero, il conte con i Genovesi stette, infino a che le due città non furon prese. Conquistata Gibelletto, per sè la tenne, che era del distretto di Tripoli, e se ne prese due parti e la terza parte diede ai Genovesi; pose nella città un suo visconte e i Genovesi posero a guardia della lor terza parte Ansaldo Corso.
Vero è che dopo la presa di Cesaria e di Azoto, arrivando a Genova i Genovesi con le galee che aveano queste città conquistato, e a tutti raccontando la vittoria e il trionfo che con l’aiuto di Dio ottenuto aveano e le grandi ricchezze ivi prese, con molta letizia furono ricevuti. E poi vennero dicendo come trovata aveano la terra d’oriente e come avean saputo che il re Gotofredo era morto e che Boiamundo era prigione dei Turchi di Corrizana. Per queste cose, tutte le parti di levante, che piene stavansi di timore perchè credevano di perdere i castelli e le terre, si rallegrarono assai (così essi raccontavano) per l’arrivo dei Genovesi che, venuti al porto di Laudicea, quivi per tutto l’inverno si fermarono. E Balduino fecero venire a Laudicea dalla città di Edessa e lo pregaron che accettasse il regno di Gerusalem; e quegli così fece, come è detto più sopra nella scrittura di Caffaro; e posero Tanclerio principe in Antiochia. Caffaro, che racconta queste cose, fu presente e le vide. I Genovesi, colà fermandosi tutto l’inverno, molte cose fecero in quelle parti ad onore di Dio, e misero a terra dodici colonne di marmo che ancora stavano erette nel palazzo di Giuda Maccabeo, e sopra una nave le caricarono; ed erano alte quindici palmi e colorate di colori diversi, rosse verdi e gialle, e lucide così che la gente vi si specchiava quasi come nello specchio. Venuta la Pasqua, andarono a Gerusalem, come nel libro di Cafaro è scritto; ma la nave delle colonne, mentre a Genova veniva, rimase rotta nel golfo di Satalia (Adalia).

I Genovesi che a Genova si erano, ascoltando raccontare queste cose da quelli che con la flotta erano venuti, mossi da ardore per servire Dio, armarono XL galee e partirono per le terre di levante. Colà, unite lor armi a quelle del re Balduino e del conte Raimundo, le città presero di Acarunte e di Gibelletto. Quivi re Balduino i privilegi che ai Genovesi avea promesso e che sono scritti nel registro di Genova, correndo la undicesima indizione, fece e firmò; e di questi privilegi ordinò che fosse scritto sopra una pietra della tribuna del Sepolcro un esemplare a lettere d’oro; e come ciò fu fatto, egli con dodici dei maggiori della sua curia giurò che quello ch’era scritto si dovesse in perpetuo per fermo tenere. Correva allora l’anno 1105. I Genovesi ebbero per terza parte della città di Acarunte una via lungo il mare e un giardino, e fecero patti con il re Balduino che desse loro ogni anno seicento bisanti; di più si ebbero fuor delle mura la terza parte della terra, fino ad una lega. E un visconte vi posero, e questo fu Sigbaldo canonico di San Lorenzo, che tutto si ebbe e conservò in pace, come nei privilegi è scritto. Queste cose compiute, i Genovesi con trionfo fecero ritorno.
Di poi il conte Raimundo, che stava al monte Peregrino, venne a morte, e tenne in sua vece e governò il castello il nipote di lui Villelmo di Giordano; e questi mandò un suo nunzio a Genova con una lettera che diceva la morte del conte e i Genovesi pregava di dar presto aiuto a prendere la città di Tripoli, in servizio di Dio e del santo Sepolcro.

I cavalieri del conte portarono il flglio suo Anfos, fanciulio, a Sant’Egidio, e gli abitanti di quella terra giurarono che a servizio del figlio, flnchè all’età maggiore non fosse giunto, tutta la terra avrebbero tenuta che Beltramo Zavata, il bastardo del conte, in custodia si aveva. Beltramo lasciò la terra al fanciullo, e per mare, su górabi, venne con i cavalieri a Genova, i Genovesi pregando che seco sulle galee lo portassero oltre mare per servire Dio nella presa della città di Tripoli. Udite le preghiere e le promesse di lui, e dopo l'imbasciata di Villelmo di Giordano, i Genovesi armanono LX galee e Beltramo e i suoi cavalieri portarono a Tripoli e con lui stettero all’ assedio della città, finchè con molte macchine e con fatica grande e da fortissimi guerrieri combattendo, non la presero a forza. Intanto Villelmo di Giordano, che dall’arrivo di Beltramo era contristato e tutti i giorni impediva che Beltramo entrasse in città, e teneva il monte Peregrino e i campi seminati all’intorno, mandò in Antiochia un suo nunzio a Tanclerio, acciò che venisse e così lo aiutasse che cacciare con l’ armi potesse Beltramo dalla città. Tanclerio, come Villelmo chiedeva, con molti cavalieri cominciò a venire; ma infra tanto accadde che un giorno, sul fare dell’alba, gli scudieri di Beltramo tra le messi lasciaronsi vedere di Villelmo di Giordano. Villelmo incontanente montò a cavallo e messosi a corsa avverso gli scudieri, uno scudiere lanciògli contro una saetta e nella gola lo prese, così che morto rimase in mezzo alle messi. Molto si allietò Beltramo di questa morte, prese il monte Peregrino, e il di fuori della città di Tripoli e la terra a Tripoli vicina con i Genovesi spartì. Così che ai Genovesi la terza parte diede di Tripoli, dentro e fuori la città, e le due parti di Gibelletto che suo padre il conte Raimundo avea per sè tenute, e giurò e firmò, tutto come vollero i Genovesi ....... poi dissero che in quanto alla città di Tripoli non rispettò il giuramento. I Genovesi si tennero tutto Gibelletto e Ugone Embriaco posero a guardia di due parti, la terza parte lasciando ad Ansaldo Corso, siccome egli aveala fino allora custodita ; e a Tripoli mandaron lor messi per la guardia della parte a loro assegnata, e dipoi a far preghiere andarono al Sepolcro del Signore. Ma Beltramo dalla cittá espulse in modo disonorevole i nunzii di Genova, e i patti che giurato avea gittossi dietro le spalle. I Genovesi, ritornando dal Sepolcro, diedero a Gibelletto ogni ordinamento necessario, a Ugone comandarono e ad Ansaldo che saggiamente avessero la guardia della città e con trionfo a Genova fccero ritorno. Quando Tripoli fu presa, correva l'anno del Signore 1109.

FINE DEL LIBRO DELLA LIBERAZIONE DELLA CITTÀ D’ ORIENTE


BREVE STORIA DEL REGNO GEROSOLIMITANO

Opera di scrittore anonimo, probabilmente di Cafaro fino al 1163. L’ultima parte è di Jacopo d’Oria.

QUANDO la città di Gerusalem fu presa, secondo che trovasi scritto sopra nella precedente storia (cioè nell'anno 1099), il duca Gotofredo venne eletto in quel tempo re e signore; ed egli fu, se ve n’ebbe altro mai, uomo benigno ed onorevolissimo, e disse che non avrebbe portato corona d’oro là dove l’altissimo Gesù Cristo patì di portare una corona di spine. Dopo breve tempo che il predetto Gotofredo regnava, chiuse il lume estremo di sua vita nell’anno 1100, presso il Natale del Signore.
Lui morto, fu eletto re e signore un certo Balduino, fratello del detto duca Gotofredo, che era come direbbesi il conte di Rages (Edessa), la quale città egli avea per sè presa e in essa dimorava. Per la qual cosa chiamato, questo Balduino venne, massime ad istanza e preghiera di certi Genovesi che colà trovavansi con XXVI galere e VI navi, ed anche per le preghiere del patriarca Dumberto e di Maurizio vescovo Portuense e legato della Romana curia. Il detto re Balduino, che fu uomo probissimo e discreto, prese nel cominciar del suo regno, insieme con le galee genovesi, la città di Cessaria (Cesarea), com’è apertamente scritto più sopra nella storia di Cessaria. Di poi soggiogò una certa città che si chiamava Acharon (Acon Akka, S. Giovanni d'Acri), mediante l’aiuto dei Genovesi che vennero in suo soccorso con XL galee. Per questo, che fu un vero servizio avuto dai Genovesi, Balduino diede e concesse al comune di Genova il terzo della predetta città di Acharon, come è scritto distesamente in un certo privilegio che egli di poi comandó si facesse e che trovasi nel registro del comune di Genova, all’anno 1105. Nello stesso anno i Genovesi insieme con il conte Raimundo di Sant’ Egidio presero Gibelletto, come è scritto sopra nella precedente storia, e presero del pari Tortosa di Soria, correndo allora l’anno 1101.
Nel tempo del predetto Balduino, i Genovesi XL galee armate andarono oltre mare insieme con Beltramo Zavata, il quale era un bastardo del conte Raimundo di Sant’ Egidio, e presero Tripoli. E questo conte Beltramo diede e concesse al comune di Genova la terza parte della città, presente il detto re Balduino e correndo l’anno 1109 e il mese di luglio, come trovasi in certo privilegio che è nel registro del comune di Genova. Ma pochi giorni dopo. il conte Beltramo ritolse ai Genovesi quello che avea lor dato e concesso, e di che era stato fatto particolare giuramento. Indi il predetto re Balduino prese con XXII galee Baruto (Beyrouth), l’anno 1110; e in quell’anno i Genovesi con le medesime XXII galee presero senz’aiuto d’alcuno una certa città che si chiama Malmistra (Mamistra, oggi Mopsueste) ed è nel principato di Antiochia. In verità il re Balduino soggiogò in sua vita molte città e borghi che sottopose al regno di Gerusalem, e visse per molti anni; finchè un dì venne a morte. Ma è pur vero che, nel tempo del suo regno, fu lo stesso Balduino che diè licenza ai Genovesi di scrivere nella tribuna del Sepolcro, a lettere d’oro, quello ch’egli aveva lor concesso in privilegio; e quelle lettere costarono ai Genovesi duemila bisanti d’oro; e restarono così scritte fino al tempo del re Amarrico (Amalrico I, successore di Balduino III. Lo sfregio di cui scrive Caffaro pare avvenuto intorno al 1169) che le fece cancellare e distruggere. Dopo la morte di questo Balduino, fu eletto re il conte di Roaxia (Ragas, Rages ossia Edessa), che era suo consanguineo germano e si chiamava pur esso Balduino. Ma siccome il Balduino predetto, quello che era morto, aveva un fratello che si chiamava Eustachio ed era il conte di Bononia (Boulogne-sur-mer), questo, quando seppe della morte di suo fratello, si preparò per andare in Gerusalem a prendere e mantenere il regno in successione del detto fratello Balduino. Ma arrivato che fu in Puglia, udì che l’altro Balduino, suo consanguineo, era stato eletto re; e allora volse subito indietro, dicendo che per niun modo voleva che la terra del Signore fosse messa a scandalo per cagion sua, sebbene la successione gli toccasse per diritto. Il predetto Balduino, quello che era prima il conte di Roaxia, aveva una flglia di nome Milissén (Melissenda, seconda moglie di Folco d’Angiò), che fu regina e moglie del re Fulcone. E niuno si meravigli se di lei si fa qui appena menzione, perchè più tardi, per cagione di questa donna, la terra fu perduta. Di poi Balduino, quando fu re, ebbe due figlie, di cui una chiamata Dulcis e che fu moglie del conte Raimundo di Tripoli, il quale restò ucciso dagli Assassini (da l’arabo Haschichin, nome del popolo del Libano che sotto il "Vecchio della Montagna", famoso nella storia delle Crociate, portava dappertutto le ruberie e le uccisioni). E questo Raimundo lasciò un figlio che avea avuto dalla detta sua moglie, il quale chiamavasi pur esso Raimundo, e fu durante il suo tempo che la terra fu perduta. L’altra figlia di Balduino ebbe nome Aelis e fu moglie del principe Baiamonte, figlio di Baiamonte di Roberto Guiscardo. Da questa nacque una figlia che fu chimata Costanza e fu moglie di Raimundo conte di Pittavia (Poitiers). Il predetto re Balduino, uomo probissimo e discreto com’era, visse molti anni e in sua vita prese molte città e borghi e li soggiogò arditamente ; e sopratutto la città di Tiro, che prese con l’aiuto di navi Veneziane. Dopo venne a morte.

Morto questo re, sua figlia, di nome Milissén, fu congiunta in matrimonio a un certo Fulcone conte di Anio (Angiò). Questo Fulcone, fatto re, governò e tenne la terra da probissimo uomo, per molti anni, ed ebbe da quella sua moglie due figli, dei quali uno fu chiamato Balduino e l’altro Amarrico, ed entrambi furono più tardi re. Ma alla fine il re Fulcone morì e gli successe nel regno suo figlio Balduino, che avea tredici anni, e l’altro figlio, vale a dire Amarrico, che sette anni aveva, fu conte di Giaffa. Il re Balduino, ornato di tutta la probità e discrezione, visse per lungo tempo; ebbe in moglie Teodora nipote dell’ imperatore Manuel, perchè era figlia del fratello maggiore di lui Isaac. Durante il suo tempo Balduino tenne la terra e l’ingrandì e costrusse molti castelli e borghi e molte altre grandezze fece, e specialmente prese la città di Scalona (Ascalona) nel 1154, anno decimo del suo regno. In quel tempo il re Loisio dei Franchi e il re Corrado di Alemania, radunato un grande esercito, arrivarono d’ oltre mare alla terra di oriente e posero in assedio la città di Damasco. In quell’assedio era Federico duca di Suavia (Svevia), che fu figlio del fratello del detto re Corrado, e più tardi fu imperatore. Questo Corrado, proprio davanti alla porta della città di Damasco, troncò nel mezzo, con la spada, Un soldato armato. Però da questo assedio dovettero ritrarsi, e non poterono prendere la città.
Il detto re Balduino si dedicò a sommo grado nelle mansioni del Tempio, che di nuovo era stato costruito, ma non per molto tempo; e in ciò consumò lo spazio di sua vita, nell’anno del Signore 1162. A lui successe nel regno suo fratello, di nome Amarrico, di ventisette anni, nell’ anno del Signore 1163. Questo Amarrico aveva in moglie, prima che prendesse il regno, una tale che era sorella del conte Iaucellino il giovine di Roaxia, e si chiamava Agnesia (Agnese, figlia di Gosellino I di Courtenai, conte di Edessa dal 1118 al 1131); e con essa avea parentela di quarto grado, e da questa moglie ebbe un figlio che fu chiamato Balduino e che dopo fu fatto re; ma però era lebbroso. E così ebbe parimenti una figlia che fu chiamata Sibilia e fu moglie di Villelmo Longaspada, marchese di Monteferrato (Monferrato), ed anche del re Guidone. Sapendo dunque il re Amarrico che con la detta sua moglie si trovava in peccato, a causa della linea di parentela che ad essa lo tenea congiunto, disse che non poteva giustamente portare corona finchè in quel peccato fosse rimasto; per la qual cosa ritrassesi dal suo matrimonio. Separato che si fu da lei, prese in moglie un’altra, che fu chiamata Maria, nipote dell’ imperatore Manuel (Perchè figlia di Giovanni Comneno che era figlio di Andronico fratello dell’imperatore Manuele) e figlia di Giovanni protosevasto (Ossia primo venerabile, dignità nella corte di Bisanzio istituita dall’imperatore Alessio Comneno), il quale era nipote dell’imperatore Manuel per via di suo fratello; e da lei ebbe il re Amarrico una figlia, che fu nominata Isabella ed ebbe quattro mariti. Di poi esso re Amarrico visse per molto tempo e governò il regno ottimamente da uomo provvido e benigno com’era, e vinse molte battaglie ed assai più luoghi soggiogò e ricostrusse, e molte cose prospere nel suo tempo accaddero; e abbenchè io non possa narrare a voi tutte queste cose, tuttavia di lui dirò sino in fondo quelle cose che mi sembrano doversi dire. Viveva in Babilonia un certo signore, di cui il nome era Mullena (Cioè Maulena, che significa Signor Nostro), e nella sua patria si trovavano pochi uomini armati e buoni a combattere, e ciò a causa della loro inerzia e miseria. Esso medesimo, il signore, stava sempre rinchiuso nel palazzo. Ed eravi in quel paese un certo gran principe, che fu chiamato Soarto (Era questo il Visir Savar), ed aveva una grande discordia con certi magnati di quella terra, dei quali ignoro i nomi. Questo Soarto, volendo radunare un esercito contro i nemici suoi, mandò a dire al predetto re Amarrico che venisse al suo soldo con i suoi cavalieri, per aiutarlo. Essendo venuto il re Amarrico con i suoi cavalieri in suo soccorso, il predetto Soarto prometteva al re, in quale giorno gli piacesse, mille bisanti per la sua lancia, e per quanti altri de’ suoi cavalieri, secondo la volontà sua. Andarono a Babilonia e furon poi in Alessandria, e questa città in nome di Soarto presero, e il re Amarrico per vero poteva tenerla a suo beneplacito, se non che non voleva andare contro il giuramento che a lui avea fatto. Ma gli avversari di Soarto mandaron messi a Damasco (Cioè a Nur-ed-din-Mahmud, sultano di Damasco) per avere soccorso contro Amarrico e i suoi; e venne in loro aiuto un certo ammiraglio che si chiamava Sirocono (L’emiro Sirchuk-Asad-ed-din. comandante dello esercito egiziano). Questo Sirocono aveva quattro nipoti, vale a dire Semsedole, Sefei Salem, Saladino e Sefedino (Seems-ed-daula, Sciafei Salem, Saladino e Seif-ed-din), i quali insieme con grande numero di altri cavalieri e con il predetto ammiraglio andarono al soccorso, come sopra è scritto. Ma però il re Amarrico, invece di ritirarsi quando essi arrivarono, pose assedio a una certa città di quella provincia, che si chiamava propriamente Bolbese (Belbeys, l’antica Pelusium), e in ultimo fece pervenire il detto Soarto a pace e concordia con i nemici suoi, secondo ciò ch’ egli voleva, e ritornò in patria, egli e i suoi cavalieri, con grandissimo onore e trionfo e grandissima quantità di denaro. Ma anche i Turchi della parte avversa tornaron pur essi nella loro patria con grandissima quantità di bisanti ricevuti in soldo. Di poi il predetto Sirocono, considerando la fertilità della città di Babilonia e la debolezza degli uomini che in essa vivevano, pensò di soggiogarla. E per questo radunò celatamente un grande esercito e insieme con i predetti suoi nipoti andò all'assedio della (1169-1171) città, che anche il re Amarrico non sapeva di questa impresa. Siroceno, essendo pervenuto ad un colloquio con il detto Soarto, lo uccise nequissimamente a tradimento, e la medesima cosa fece di Mullena più sopra nominato; così egli e i suoi nipoti presero e soggiogarono Babilonia e non trovarono alcuno che contro loro si ribellasse. Però il dominio della città fu concesso a Saladino.

Quando il re Amarrico udì della presa di Babilonia e del dominio che ne aveva il Saladino, molto e assai fu turbato. Onde fece armare incontanente VII galee, e con queste andò a Costantinopoli dall’imperatore Manuel, che era fratello dell’avolo di sua moglie Maria, a cagione di chiedergli aiuto. Manuel lo vide e lo accolse lietamente. E siccome questo imperatore Manuel era in tutto ornato d’ogni grado di munificenza e di prudenza, e tale da superare in bontà tutti quanti gli altri della Grecia che lo aveano preceduto da trecento anni ed ancor più, così stimò di far radunare una grandissima quantità d’oro e d’argento e di drappi di seta che volea dare in dono al predetto re Amarrico. Onde, radunata questa grande quantità di cose, la fece porre tutta nel suo palazzo e poi invitò il re Amarrico (1171-1173) con sè a pranzare. Quando si furon levati da mensa, l'imperatore Manuel disse al re Amarrico che voleva mostrargli il suo tesoro; e quando quegli lo ebbe veduto, gli domandò che cosa farebbe se un così grande tesoro possedesse. E il re Amarrico rispose che vincerebbe e metterebbe a giogo quella terra che nelle sue contrade i Saraceni tenevano. E l’imperatore Manuel disse: "Ed io non voglio che per ciò rimanga". Onde comandò che tutto quel tesoro a lui fosse dato. Il re Amarrico, ricevuto ch’ ebbe il tesoro, con grandissimo gaudio e letizia insieme con le sue genti fece ritorno. E con quel tesoro il più grande esercito raccolse e danno grandissimo portò ai Saraceni; e specialmente assediò una certa città che si chiamava Bellinax (Belinas, ant. Panea e poi Cesarea Philippi), la quale era molto vicina alla città di Damasco. Ma alla fine il predetto re Amarrico chiuse l’estremo giorno di sua vita; e gli successe nel regno il figlio suo Balduino, e a lui lasciò un balio, suo consanguineo, che si chiamava Millone di Plancino (Milone di Plancy, signore di Carac e di Montereale), il quale fu poi ucciso dai signori di Baruto. Ma è pur vero che prima di morire, il predetto re Amarrico, e con lui i canonici del Sepolcro, fecero distruggere le lettere d’oro che scritte erano nella tribuna del Sepolcro e dicevano quello che era stato concesso al comune di Genova, come sopra è scritto.

Questo re Balduino, flglio del re Amarrico, visse molti anni e fu uomo probissimo e benigno; però era lebbroso. E durante il suo tempo accaddero nel regno di Gerusalem molte cose prospere; combattè dieci battaglie e in niuna di queste battaglie avvenne mai che la sua persona soccombesse. Congiunse in matrimonio sua sorella, di nome Sibilia, con Villermo Longaspada marchese di Monteferrato, e da lei nacque un figlio che venne chiamato Balduino e che più tardi fu re. Di poi, dopo la morte del detto Villermo Longaspada, questa Sibilia fu congiunta in matrimonio con il re Guidone. Un’altra sorella, Isabella di nome, maritò con un certo Unfredo, figlio di Unfredo di Tirono (Conte Unfredo III di Thoron), la quale poi fu moglie di Corrado marchese di Monteferrato, fratello del predetto Villermo Longaspada. Ed ancora fu moglie del conte Enrico di Campagna (Champagne) e di (1175-1185) Americo re di Cipro, che era fratello del predetto re Guidone. Indi il detto re Balduino, quello che era lebbroso, morì e lasciò il regno a un suo nipote, vale a dire a Balduino figlio di Villermo Longaspada, e a questo Balduino lasciò un balio che fu il conte Raimundo di Tripoli, figlio della contessa Dulcis e consanguineo germano del re Amarrico. Questo conte, quando fu fatto balio, governò la terra come re. Egli poi possedeva di sua parte una certa città, che dalla moglie eragli pervenuta, e si chiamava Tabaria (L’antica Tiberias o Tiberiade, oggi Tabariéh) ed era nel regno di Gerusalem, e vi si stimavano dentro ottanta uomini d’arme per il dominio della città; i quali tenevano in possesso la terra e il feudo. La moglie del detto conte aveva avuto un altro marito, e da questo quattro figli che erano Ugone, Oste, Villermo e Raulfo, tutti invero nobilissimi e di molta probità ornati, i quali stavano agli ordini del conte. Spesse volte questo conte, vedendosi già signore di Tripoli e balio del regno di Gerusalem e signore di Tabaria, pensò di conquistare e di far suo il regno stesso Gerosolimitano, dicendo che a lui spettava e che dovea averlo e tenerlo di diritto. E per questa ragione: che il re Balduino secondo, suo avolo, nel tempo che era conte di Roaxia, ebbe una figlia die fu chiamata Milissén. Anni dopo, e poi che fu fatto re, ebbe un’altra flglia che fu chiamata Dulcis e che era madre di esso conte. E siccome era consuetudine che il primo erede dovesse avere l’eredità paterna, così egli diceva che alla predetta Milissén spettava solamente la contea di Roaxia, perchè essa in quel tempo era nata, e che a sua madre, vale a dire a Dulcis, dovea toccare invece il regno, come che era nata quando il padre era re; e così diceva che essa nel regno era la prima ed era potente più d’ogni altra donna. Su queste cose il detto conte parlò con i baroni e i principi di oltremare e tutti li ebbe secondo il suo volere. Più tardi, ma non dopo molto tempo, quel fanciullo Balduino, che di diritto aver doveva il regno, morì; e questo accadde propriamente in Accon, dov’era il marchese di Monteferrato, avolo (Non avolo, come dice il codice, ma zio paterno) del detto fanciullo, e la madre di lui che si chiamava Sibilia, e il conte Guidone di Giaffa che di Sibilia era il marito, e il principe Rainaldo (Rinaldo di Chatillon, principe d’Antiochia) e il conte Iausellino (Gosellino II, il giovine, conte di Edessa), i quali fecero portare il predetto fanciullo morto nel regno di Gerusalem e colà fecero sepellire.

Allora il conte di Tripoli, udita, mentre che era in Tabaria, la morte del fanciullo, fece radunare tutti i suoi amici, dicendo che partire voleva per il regno di Gerusalem; e se la predetta regina Sibilia, madre del fanciullo, volesse prendersi il regno, egli voleva difenderla e mostrare che quel regno a lei appartenea di diritto. Senonchè nel regno di Gerusalem eravi il maestro del tempio, di nome Girardo di Ridaforte, che aveva assai in odio il conte Tripolitano, e questa cosa per motivo che nella contea del detto conte eravi un tal castello che si chiamava Botrono (Batrun, presso Tripoli), il quale in verità era di una certa Signora ancor nubile che il detto Girardo maestro del tempio avea chiesta in moglie al predetto conte, e per più supplicarlo, a lei erasi promesso. Ma essendovi allora in Tripoli un certo Pisano, che era molto ricco, e avendo questo un nipote che si chiamava Plebano, esso diede al conte diecimila bisanti perchè concedesse la predetta Signora in moglie a suo nipote. Il conte, avuti ch’ ebbe i bisanti, maritò quella signora con il predetto Plebano. Quando seppe questa cosa Girardo, preso (1186) da vergogna e da grandissimo dolore, nel tempio si ritrasse e di li a poco fu fatto maestro del tempio.

Dopo la sepoltura del predetto fanciullo di nome Balduino, il maestro del tempio e il principe Rainaldo e il conte Iausellino insieme con gli altri amici loro, che colà erano presenti, offrirono la terra al conte Guidone di Giafla e a Sibilia sua moglie, e il predetto Guidone incoronarono. Ora accadde che mentre Guidone, fatto re, veniva fuori del tempio e in capo avea la corona, il maestro del tempio, guardandolo, gli disse che quella corona ben valeva Botrono. Onde il conte di Tripoli, che si trovava in Tabaria, udita questa cosa, molto e assai ne fu turbato; e sul momento, come correa poi la pubblica voce, mandò suoi nunzii a Saladino, e con lui fece un patto, però segreto. Dopo ciò il patriarca di Gerusalem e con esso i vescovi, gli ospitalieri e gli altri prinicipi e magnati di quella terra, temendo di perderla a cagione della discordia ch’ era sorta tra il re e il conte, così operarono che fecer fare tra loro la composizione e la pace. Però il signore Balduimo di Bellino (Balduino di Ibelin, signore del castello di Mirbel, toltogli da Seif-ed-din nel 1187), non volendo a quella concordia consentire, andò in Antiochia, e dopo alcun tempo chiuse l’estremo lume di sua Vita.
Di poi, dopo breve tempo, il principe Rainaldo, che in quelle parti era potentissimo ed aveva in moglie una ch'era stata la moglie del signore Alfredo di Tirono , ruppe la tregua che tra il re e il Saladino erasi costituita; e un giorno fermò una carovana di gente del Saladino, e gli uomini trattenne e grandissima quantità di denaro; di ciò fu il Saladino assai turbato e mandò molti al re e ai baroni e agli altri principi di quella terra, perchè così facessero che gli uomini e le altre cose, che perdute avea, fossergli restituite. Ma il predetto principe Rainaldo, e perchè era amicissimo del re e perchè avea dato opera a incoronarlo, niente volle restituire. Allora il Saladino, radunato il più grande esercito, e seguito da sessantamila persone, entrò nella terra e assediò la città di Tabaria. Quando seppero questa cosa, il re Guidone e il predetto conte di Tripoli insieme con i Templari e con gli altri principi e magnati di quella terra, radunarono un grandissimo esercito per il soccorso di Tabaria; nel quale esercito mille cavalieri avevano, quattromila Turcopoli (Soldati armati alla leggera) e venticinque mila fanti; e andando verso Tabaria, sopra un certo monte fermaronsi davanti alla città, che era fortissimo e assai ricco d’acqua. Colà essendo, il re, il conte e gli altri principi e baroni tennero infra loro consiglio della battaglia da farsi contro il Saladino. Ai quali il conte rispondendo, disse che non sembravagli di cominciare buona battaglia contro il Saladino, perchè Tabaria era sua; e questo diceva perchè se egli prendesse Tabaria, non poteva da allora aver più quella terra, e perchè inoltre il soccorso ad essi ogni dì aumentava, mentre diminuiva per Saladino. Onde era suo avviso che dovessero aspettare fino a mettere lui in fuga, quando fossesi ritirato, e così dato gli avrebbero il più grande danno. Udite queste cose, Girardo maestro del tempio rispose che per allora intanto non c’era che pelo di lupo. Onde il conte, adirato, disse che voleva che si facesse la battaglia. E incontanente discesero al piano. Quando il Saladino li vide, comandò al suo esercito di prendere le armi, e si dispose come se fuggir volesse; e questo fece per attirare i Cristiani in campo più aperto. Quando furono i Cristiani dal monte separati, il Saladino, ritornando con il suo esercito, posesi infra il monte e i Cristiani, perchè su quello trovar non potessero rifugio. Allora i Cristiani, poichè avevano perduta l’ acqua, andaron verso un certo monticello, dov’ era lì vicino un bosco; e allora i Turchi posero a fuoco quel bosco; e come ciò accadeva d’estate e i Cristiani acqua non avevano, così resistere non poterono. Vedendo questa cosa, il conte di Tripoli andò arditamente con alcuni suoi cavalieri, insieme raccolti, verso l’esercito del Saladino. E ad essi i Saraceni diedero quartiere, così che il predetto conte fuggì con i suoi dalle mani dei nemici e andò in Accon (Akka, S. Giovanni d’Acri). Tutti gli altri Cristiani posersi in fuga, e così il Saladino tutti li fece prendere.

E allora fu preso il patriarca di Gerusalem con la vera croce, quella ch’egli portava sempre in battaglia contro i nemici di Dio, la quale più tardi certi Genovesi portarono a Genova in questo modo. Dunque, quando più tardi fu presa dal Saladino la città di Accon, passato qualche tempo, egli fece tregua con Iusarchio (Isacco) imperatore dei Greci, in questo modo: che l’imperatore fra le altre cose costruisse nella città di Costantinopoli una moschea ad uso dei Saraceni, e così egli avrebbegli restituita la croce vera che avea ritolta. Ora, accadde che mandando a lui questa croce sopra una nave insieme con molti altri doni, la nave fu presa da un certo Genovese, di nome Villermo Grasso, e da un certo Pisano, di nome Fortis, il quale abitava in Bonifacio che in quel tempo i Pisani possedevano, e quei due, mentre prima erano l’uno all’altro nemici, si accordarono insieme essendo tutti e due pirati, e presero quella nave; e avendo il detto Fortis udito da uno dei nunzii del Saladino, che era là dentro la vera croce, questa celatamente rapì e portò a Bonifacio. Ma più tardi, avendo III navi dei Genovesi preso Bonifacio, lo stesso Fortis, caricatosi della croce e sopra il mare fuggendo a piedi asciutti, dai Genovesi fu inseguito e preso con la detta vera croce che fu portata con grande gaudio a Genova, dove tutti i venerdì d’ogni mese è mostrata al popolo. E nello stesso luogo havvi un’altra vera croce che si chiama la croce di Elena, e fu portata a Genova in questo modo. Quando adunque i Veneziani ebbero presa Costantinopoli nell’anno del Signore 1203, mandarono questa croce al comune di Venezia sopra una certa nave. Ma un cittadino Genovese chiamato Deodedelo, che facea 1’ arte del pirata, la prese e la portò a Genova, e in essa croce sono scritte lettere greche. Si chiama poi la croce di Elena, perchè avendo la beata Elena, madre di Costantino, meritato di trovare la Croce del Signore dopo la sua passione, fece fare di quel legno la detta croce e la lasciò, dopo la sua morte, nella città di Costantinopoli perchè colà si adorasse. Più tardi il patriarca Costantinopolitano fece ornare quella croce d’argento, come chiaranente si contiene nelle predette parole scritte sulla croce. Ed havvi pure in una certa finestra vicino all’altare del beato Giovanni Battista un’altra vera croce, che si dice la croce santa dell’ospedale del beato Lazaro di Betania, che Corrado marchese di Monteferrato, quando il re di Francia, ed egli con esso, prese Accon e questa croce in quel luogo ebbe trovata, mandò e donò al comune di Genova in retribuzione del bene e dell’onore che dai Genovesi aveasi ricevuto; e questa croce è baciata dal popolo nel giorno del venerdì santo.

Dopo queste cose, il Saladino, ritornato alle sue tende con grandissima vittoria e trionfo, comandò che taluni dei carcerati fossero fatti a lui venire. Quando il re Guidone e il principe Rainaldo e il maestro del tempio e certi altri baroni gli furono davanti, disse il re al Saladino che gli facesse portare da bere; e quegli subito comandò che gli fosse dato. Ma avendo il principe chiesto al Saladino similmente da bere, questi rispose che per niun modo glielo avrebbe fatto dare; perchè era consuetudine tra i Saraceni che se ad uno porgevasi da bere, a quello poi non si poteva più recare offesa. Onde il predetto Saladino disse al principe che egli sè medesimo stimava per uomo dabbene e che anco non era solito di giurare se non sulle correggie dei suoi calzari; ma che egli invece, il principe, era venuto meno al giuramento fatto sopra Dio e la croce, a cui credeva, e che i patti avea tradito in suo danno. Perciò disse che in niun modo avrebbe avuto di lui compassione. E fattolo separare dagli altri, egli stesso con le sue proprie mani gli troncò il capo. Ma il re invece e gli altri baroni e principi ordinò che fossero custoditi nelle carceri onorevolmente. Dunque essendosi il conte di Tripoli rifugiato in Accon, gli altri Cristiani che là dentro erano, udita raccontare la disavventura accaduta nella battaglia, si ritirarono tutti nella città di Tiro. Ma il Saladino, venuto sopra Accon con il suo esercito, la città prese; e gli altri borghi e casteili e città delle parti di Accon similmente soggiogò, salvo la città di Gerusalem, nella quale molti Cristiani eransi ridotti. Ma poi pose assedio a Gerusalem, e in questo assedio restò tre mesi; e alla fine la predetta città di Gerusalem fu consegnata nell’anno del Signore 1187, il 2 di ottobre. E quando avvenne la predetta battaglia correva l’anno 1187, il mese di luglio e il giorno 4.

Il papa romano, Urbano di nome, udì questa notizia nella festa di S. Martino, presso Ferraria, e di dolore morì (Urbano III, morto a Ferrara il 19 ottobre 1187). A lui successe Gregorio che visse due mesi (Gregorio VIII, morto a Pisa mentre stava mediatore della conciliazione tra Genovesi e Pisani), e a questo successe Clemente terzo che mandò nunzii all’ imperatore e ai re di Francia e di Anglia per il soccorso di Terra santa, e predicò dovunque la croce. Intanto il predetto conte di Tripoli, quando si fu ritirato con le altre genti e con i principi sopradetti nella città di Tiro, vi trovò grandissirna quantità di Genovesi che erano colà arrivati di Romania e dalle parti della Sicilia. E i predetti conti e baroni, come li videro, lor dissero che per amore di Dio e per intelletto di pietà non permettessero che la terra soggiogata fosse dai Saraceni e che soccorrerli dovessero a protezione di quella terra, nè guardare dovessero a quelle cose alle quali guardato aveano gli altri re nei tempi passati, vale a dire a quelle cose che essi Genovesi dovevano avere, onde a loro concessero libertà in Tiro e la terza parte nella catena e il casale di san Giorgio e molti altri possedimenti che si trovano nel privilegio allora fatto ai Genovesi dal detto conte e dai baroni. Onde i Genovesi, mossi da misericordia, promisero di prestar loro soccorso, secondo che potevano, a difesa della terra; e per vero questo fecero a pieno e gagliardamente. Ora, poichè il Signore voleva sovvenire con misericordia quelli che in lui confidavano, accadeva che in quel tempo era nella città di Costantinopoli un certo signore chiamato Corrado di Monteferrato, che da ognuno era ragguardato per ogni sorte di probità e di prudenza, e aveva in moglie una sorella dell’imperatore Iusarchio. Questo Corrado, come che era in servizio del predetto imperatore suo cognato, aveva ucciso un certo barone stimato il più grande di quelle parti, perchè voleva portar via la terra all’imperatore; e il nome di questo barone ucciso era Verna (Il pretendente Alessio Brana, ucciso per mano di Corrado l’anno 1186). Però, sapendo il predetto Corrado che i Greci, per cagione della morte del predetto Verna, cercavano di ammazzarlo, tenne consiglio con un certo Genovese suo privato, di nome Ansaldo di Bonvicino, e fece locare una nave che era di un tal Genovese che si chiamava Balduino Erminio, e in quella nave celatamente si ritrasse e con essa andò al porto di Accon. E cio fu nei giorni che la terra era stata perduta, nell’anno del Signore 1188. Ma quando fu presso quella città, si avvide che era stata presa dai Saraceni; onde molto e assai ebbe timore con gli altri della nave, e comandò che nessuno fuor che lui parlasse. Intanto si avvicinava alla nave una barca di Saraceni, mandata dal Saladino, e questa interrogò quelli della nave, che gente si fossero. Ai quali il predetto Corrado rispose dicendo: "Noi siamo Cristiani e propriamente mercanti Genovesi, che avendo sentito dire della vittoria di Saladino, sicuramente e con fiducia veniamo nella sua terra; onde chiediamo e vogliamo da lui una saetta, a pegno di sicurtà". Ritornati i Saraceni a terra, andarono dal signore. Ma incontanente, mentre quelli se ne partivano, il predetto Corrado fece trarre dal porto la sua nave al rimorchio di una barca; e venuto il tempo prospero, la nave fece vela e arrivò alla città di Tiro. Quelli che erano in Tiro, saputo ch’ebbero dell’arrivo di Corrado, con onore e con grande allegrezza lo ricevettero: ed erano il conte di Tripoli, il conte Iausellino, Rainaldo signore di Sidone, Pagano di Caiffa e signore di Cesaria, e gli altri principi di quella terra. E unanimemente posero la città di Tiro sotto la sua custodia infino all’arrivo di qualcuno di questi quattro coronati, vale a dire dell’ imperatore Frederico, del re dei Franchi, oppure del re d’Engleterra o di Guillermo re di Sicilia. In quei giorni il detto conte andò a Tripoli e pochi giorni dopo, come al Signore piacque, per una certa infermità venne a morte, e la sua terra lasciò a Baiamonte, figlio del principe Raimundo di Antiochia; il quale Baiamonte tramandò la terra a un certo figlio suo, che anch’esso Baiamonte chiamavasi.

IN VERITÀ LE COSE CHE QUI SEGUONO NON ERANO SCRITTE NEL LIBRO. MA IO IACOPO D’ORIA PREDETTO, COME LE APPRESI DA CHI LE SAPEVA, COSÌ BREVEMENTE LE RIDUSSI IN ISCRITTO.

Morto il re Guidone e sua moglie Sibilia, figlia del quondam re Aimerico, per la quale Guidone divenne re, e morti i quattro flgli che essi ebbero, Isabella, sorella della detta Sibilia e (1192-1210) figlia del detto re Aimerico, la quale eragli nata dalla seconda moglie nipote di Manuel imperatore Costantinopolitano, fu data in moglie al predetto Corrado marchese di Monteferrato, nell’anno del Signore 1192. Per essa fu egli chiamato re di Gerusalem, e in un con sua moglie molti privilegi diede e confermò ai Genovesi, come sono scritti nel registro del comune di Genova. Ma tuttavia Corrado in quell’anno medesimo fu ucciso dagli Assassini e lasciò sua moglie pregnante, dalla quale nacque un’unica figlia di nome Maria. Ma essa Isabella, moglie del detto Corrado, fu poi data in moglie ad Enrico conte Trecense di Campania (Conte di Troyes di Champagne), per opera e per patti di Riccardo re di Anglia, che era fratello di sua madre e che in quel tempo si trovava nelle parti oltremarine, e per essa fu chiamato re di Gerusalem. Ed egli pure molti privilegi concesse e confermò al comune di Genova, e anche questi sono scritti nel registro del comune. Morto il re Enrico, Isabella fu data in moglie ad Aimerico re di Cipro, che era fratello del predetto re Guidone. E Maria, figlia del predetto Corrado marchese di Monteferrato, e della predetta Isabella, fu data in moglie (1210-1228) a Giovanni conte di Brenna (Brienne) che per lei fu chiamato re di Gerusalem; ed ella con lui visse due anni. Era egli in verità soldato valoroso e fortissimo e ammirabile e di grande statura. Il detto re Giovanni ebbe da lei una flglia, di nome Isabella, che fu data in moglie a Federico II imperatore, il quale fecesi per essa chiamare re di Gerusalem, ed ella visse con lui due anni, ed ebbero un figlio, che fu il re Corrado, e fu re di Gerusalem e di Sicilia. Da questo Corrado nacque il signore Corradino che dal re Carlo fu preso in battaglia, e dopo molti mesi fu fatto decapitare presso Napoli. Dopo la morte di lui furon molti, in quel tempo, che si fecero chiamare re di Gerusalem. E così il signore Ugo di Lusignano re di Cipro e, dopo lui, i suoi eredi nominavansi re di Gerusalem; ed anche Carlo primo re di Sicilia e suo figlio, l’altro Carlo, si sottoscrivevano nelle loro lettere re di Gerusalem; ma accadde infine che, per opera dei Saraceni, tutti costoro perdettero il possesso di quella terra, e così il solo nome conservarono invano nell’avvenire.

NELL'ANNO dalla natività del Signore 1294, il 16 di luglio, Jacopo d’Oria, uomo egregio, per molta onestà e sapienza preclaro, presentò la detta opera della presa di Gerusalem, di Antiochia e di Tripoli e di molte altre città, come più sopra è scritto, ai nobili uomini signori Iacopo di Carcano podestà del comune di Genova, Simone di Grumello capitano del popolo.... abate del popolo e agli anziani della stessa città; i quali vedendo un’opera così grandemente lodevole, encomiarono, preser consiglio e decretarono che detta opera fosse legata nella presente cronaca, in quella parte che il detto Jacopo d’ Oria scegliesse. Il quale Jacopo, non mai venuto meno nell’opera del Comune, la fece inserire in quesla parte della presente cronaca. Io Guglielmo de’ Caponi, notaro, fui presente alla predetta presentazione, al consiglio e al decreto, come sopra scrissi.

FINE DELLA BREVE STORIA DEL REGNO GEROSOLIMITANO

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