CATECHESI DI PAPA GIOVANNI PAOLO II SULL'EUCARISTIA

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 27 settembre 2000
L’Eucaristia suprema celebrazione terrena della “gloria”
1. Secondo gli orientamenti delineati nella Tertio millennio adveniente, quest’anno giubilare, celebrazione solenne dell’Incarnazione, dev’essere un anno “intensamente eucaristico” (TMA 55). Per questo, dopo aver fissato lo sguardo sulla gloria della Trinità che risplende sul cammino dell’uomo, iniziamo una catechesi su quella grande e insieme umile celebrazione della gloria divina che è l’Eucaristia. Grande perché è l’espressione principale della presenza di Cristo in mezzo a noi “tutti i giorni sino alla fine del mondo” (Mt 28,20); umile perché è affidata ai segni semplici e quotidiani del pane e del vino, cibo e bevanda ordinari della terra di Gesù e di molte altre regioni. In questa quotidianità degli alimenti, l’Eucaristia introduce non solo la promessa, ma il ‘pegno’ della gloria futura: “futurae gloriae nobis pignus datur” (San Tommaso d’Aquino, Officium de festo corporis Christi). Per cogliere la grandezza del mistero eucaristico, vogliamo oggi considerare il tema della gloria divina e dell’azione di Dio nel mondo, ora manifestata in grandi eventi di salvezza, ora celata sotto umili segni, che solo l’occhio della fede può percepire.
2. Nell’Antico Testamento col vocabolo ebraico kabôd si indica lo svelarsi della gloria divina e la presenza di Dio nella storia e nel creato. La gloria del Signore rifulge sulla vetta del Sinai, luogo di rivelazione della Parola divina (cfr Es 24,16). È presente sulla tenda santa e nella liturgia del popolo di Dio pellegrino nel deserto (cfr Lv 9,23). Domina nel tempio, la dimora - come dice il Salmista - “dove abita la tua gloria” (Sal 26,8). Avvolge come un manto di luce (cfr Is 60,1) tutto il popolo eletto: lo stesso Paolo è consapevole che “gli Israeliti possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze…” (Rm 9,4).
3. Questa gloria divina che si manifesta in modo speciale a Israele è presente in tutto l’universo, come il profeta Isaia ha sentito proclamare dai serafini al momento della sua vocazione: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6,3). Anzi, a tutti i popoli il Signore rivela la sua gloria, come si legge nel Salterio: “Tutti i popoli contemplano la sua gloria” (Sal 97,6). L’accendersi della luce della gloria è, quindi, universale, per cui tutta l’umanità può scoprire la presenza divina nel cosmo. Soprattutto in Cristo si compie questo svelamento perché egli è “irradiazione della gloria” divina (Eb 1,3). Lo è anche attraverso le sue opere, come testimonia l’evangelista Giovanni di fronte al segno di Cana: Cristo “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11). Egli irradia la gloria divina anche attraverso la sua parola che è parola divina: “Io ho dato loro la tua parola”, dice Gesù al Padre; “la gloria che tu hai dato a me,io l’ho data a loro” (Gv 17,14.22). Più radicalmente Cristo manifesta la gloria divina attraverso la sua umanità, assunta nell’incarnazione: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
4. La rivelazione terrena della gloria divina raggiunge il suo apice nella Pasqua che, soprattutto negli scritti giovannei e paolini, è tratteggiata come una glorificazione di Cristo alla destra del Padre (cfr Gv 12,23; 13,31; 17,1; Fil 2,6-11; Col 3,1; 1 Tim 3,16). Ora, il mistero pasquale, espressione della “perfetta glorificazione di Dio” (SC 7), si perpetua nel sacrificio eucaristico, memoriale della morte e risurrezione affidato da Cristo alla Chiesa sua amata sposa (cfr SC 47). Col comando “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19) Gesù assicura la presenza della gloria pasquale attraverso tutte le celebrazioni eucaristiche che scandiranno il fluire della storia umana. “Attraverso la santa Eucaristia l’evento della Pasqua di Cristo si espande in tutta la Chiesa (…). Con la comunione al corpo e al sangue di Cristo, i fedeli crescono nella misteriosa divinizzazione che, grazie allo Spirito Santo, li fa abitare nel Figlio come figli del Padre” (Giovanni Paolo II e Moran Mar Ignatius Zakka I Iwas, Dichiarazione Comune 23.6.1984, n. 6: EV 9,842).
5. È indubbio che la celebrazione più alta della gloria divina si ha oggi nella liturgia. “Poiché la morte di Cristo in croce e la sua risurrezione costituiscono il contenuto della vita quotidiana della Chiesa e il pegno della sua Pasqua eterna, la liturgia ha come primo compito quello di ricondurci instancabilmente sul cammino pasquale aperto da Cristo, in cui si accetta di morire per entrare nella vita” (Lettera Apostolica Vicesimus quintus annus, 6). Ora, questo compito si esercita anzitutto per mezzo della celebrazione eucaristica, la quale rende presente la Pasqua di Cristo e ne comunica il dinamismo ai fedeli. Così il culto cristiano è l’espressione più viva dell’incontro tra la gloria divina e la glorificazione che sale dalle labbra e dal cuore dell’uomo. Alla “gloria del Signore che riempie la dimora” del tempio con la sua presenza luminosa (cfr Es 40,34) deve corrispondere il nostro “glorificare il Signore con animo generoso” (Sir 35,7).
6. Come ci ricorda san Paolo, dobbiamo anche glorificare Dio nel nostro corpo, cioè nell’intera esistenza, perché il nostro corpo è tempio dello Spirito che è in noi (cfr 1 Cor 6,19.20). In questa luce si può anche parlare di una celebrazione cosmica della gloria divina. Il mondo creato, “spesso ancora sfigurato dall’egoismo e dall’ingordigia”, ha in sé “una potenzialità eucaristica”: “esso è destinato ad essere assunto nell’eucaristia del Signore, nella sua Pasqua presente nel sacrificio dell’altare” (Orientale Lumen 11). All’aleggiare della gloria del Signore che è “più alta dei cieli” (Sal 113,4) e si irradia sull’universo risponderà allora, in contrappunto di armonia, la lode corale del creato così che “in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1 Pt 4,11).

Mercoledì, 4 ottobre 2000
L’Eucaristia, memoriale dei “mirabilia Dei”
1. Tra i molteplici aspetti dell’Eucaristia spicca quello di “memoriale”, che sta in rapporto con un tema biblico di primaria importanza. Leggiamo, ad esempio, nel libro dell’Esodo: “Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe” (Es 2,24). Nel Deuteronomio invece è detto: “Ricordati del Signore tuo Dio” (8,18). “Ricordati di quello che il Signore tuo Dio fece…” (7,18). Nella Bibbia il ricordo di Dio e il ricordo dell’uomo s’intrecciano e costituiscono una componente fondamentale della vita del popolo di Dio. Non si tratta, però, della pura commemorazione di un passato ormai estinto, bensì di uno zikkarôn, cioè un “memoriale”. Questo “non è soltanto il ricordo degli avvenimenti del passato, ma la proclamazione delle meraviglie che Dio ha compiuto per gli uomini. La celebrazione liturgica di questi eventi, li rende in certo modo presenti e attuali” (CCC 1363). Il memoriale richiama un legame di alleanza che non viene mai meno: “Il Signore si ricorda di noi e ci benedice” (Sal 115,12). La fede biblica implica quindi il ricordo efficace delle opere meravigliose di salvezza. Esse sono professate nel “Grande Hallel”, il Salmo 136, che - dopo aver proclamato la creazione e la salvezza offerta a Israele nell’Esodo - conclude: «Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi perché eterno è il suo amore (…). Ci ha liberati (…), ha dato il cibo a ogni vivente, perché eterno è il suo amore» (Sal 136,23-25). Simili parole troveremo nel Vangelo sulle labbra di Maria e Zaccaria: “Egli ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia (…). Egli si è ricordato della sua santa alleanza” (Lc 1,54.72).
2. Nell’Antico Testamento il “memoriale” per eccellenza delle opere di Dio nella storia era la liturgia pasquale dell’Esodo: ogni volta che il popolo di Israele celebrava la Pasqua, Dio gli offriva in modo efficace il dono della libertà e della salvezza. Nel rito pasquale, si incrociavano pertanto i due ricordi, quello divino e quello umano, cioè la grazia salvifica e la fede riconoscente: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore (…). Sarà per te segno sulla tua mano e ricordo fra i tuoi occhi, perché la legge del Signore sia sulla tua bocca. Con mano potente infatti il Signore ti ha fatto uscire dall’Egitto» (Es 12,14; 13,9). In forza di questo evento, come affermava un filosofo ebreo, Israele sarà sempre «una comunità basata sul ricordo» (M. Buber).
3. L’intreccio tra il ricordo di Dio e quello dell’uomo è al centro anche dell’Eucaristia che è il “memoriale” per eccellenza della Pasqua cristiana. L’“anamnesi”, cioè l’atto di ricordare, è infatti il cuore della celebrazione: il sacrificio di Cristo, evento unico, compiuto ef’hapax, cioè “una volta per tutte” (Eb 7,27; 9,12.26; 10,12), diffonde la sua presenza salvifica nel tempo e nello spazio della storia umana. Ciò è espresso nell’imperativo finale che Luca e Paolo riportano nella narrazione dell’Ultima Cena: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me… Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (1Cor 11,24-25; cfr Lc 22,19). Il passato del “corpo dato per noi” sulla croce si presenta vivo nell’oggi e, come dichiara Paolo, si apre al futuro della redenzione finale: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1 Cor 11,26). L’Eucaristia è, dunque, memoriale della morte di Cristo, ma è anche presenza del suo sacrificio e anticipazione della sua venuta gloriosa. È il sacramento della continua vicinanza salvatrice del Signore risorto nella storia. Si comprende pertanto l’esortazione di Paolo a Timoteo: “Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti” (2 Tm 2,8). Questo ricordo vive e opera in modo speciale nell’Eucaristia.
4. L’evangelista Giovanni ci spiega il senso profondo del “ricordo” delle parole e degli eventi di Cristo. Di fronte al gesto di Gesù che purifica il tempio dai mercanti e annunzia che esso sarà distrutto e fatto risorgere in tre giorni, egli annota: “Quando fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Gv 2,22). Questa memoria che genera e alimenta la fede è opera dello Spirito Santo “che il Padre manderà nel nome” di Cristo: “Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26). C’è, quindi, un ricordo efficace: quello interiore che conduce alla comprensione della Parola di Dio e quello sacramentale che si realizza nell’Eucaristia. Sono le due realtà di salvezza che Luca ha unito nello splendido racconto dei discepoli di Emmaus, scandito dalla spiegazione delle Scritture e dallo “spezzare il pane” (cfr Lc 24,13-35).
5. “Ricordare” è pertanto “riportare al cuore” nella memoria e nell’affetto, ma è anche celebrare una presenza. “L’Eucaristia, vero memoriale del mistero pasquale di Cristo, è capace di tenere desta in noi la memoria del suo amore. Essa è, perciò, il segreto della vigilanza della Chiesa: le sarebbe troppo facile, altrimenti, senza la divina efficacia di questo richiamo continuo e dolcissimo, senza la forza penetrante di questo sguardo del suo Sposo fissato su di lei, cadere nell’oblio, nell’insensibilità, nell’infedeltà” (Lettera Apostolica Patres Ecclesiae, III: Ench. Vat., 7, 33). Questo richiamo alla vigilanza rende le nostre liturgie eucaristiche aperte alla venuta piena del Signore, all’apparire della Gerusalemme celeste. Nell’Eucaristia il cristiano alimenta la speranza dell’incontro definitivo con il suo Signore.

Mercoledì, 11 ottobre 2000
L’Eucaristia “sacrificium laudis”
1. “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria”. Questa proclamazione di lode trinitaria suggella in ogni celebrazione eucaristica la preghiera del Canone. L’Eucaristia, infatti, è il perfetto “sacrificio di lode”, la glorificazione più alta che dalla terra sale al cielo, “la fonte e l’apice di tutta la vita cristiana in cui (i figli di Dio) offrono (al Padre) la vittima divina e se stessi con essa” (LG n.11). Nel Nuovo Testamento la Lettera agli Ebrei ci insegna che la liturgia cristiana è offerta da un “sommo sacerdote santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”, che ha compiuto una volta per sempre un unico sacrificio “offrendo se stesso” (cfr Eb 7,26-27). “Per mezzo di Lui, dice la Lettera, offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode” (Eb 13,15). Vogliamo oggi evocare brevemente i due temi del sacrificio e della lode che si incontrano nell’Eucaristia, sacrificium laudis.
2. Nell’Eucaristia si attualizza innanzitutto il sacrificio di Cristo. Gesù è realmente presente sotto le specie del pane e del vino, come egli stesso ci assicura: “Questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue” (Mt 26,27-28). Ma il Cristo presente nell’Eucaristia è il Cristo ormai glorificato, che nel Venerdì Santo offrì se stesso sulla croce. È ciò che sottolineano le parole da lui pronunziate sul calice del vino: “Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti” (Mt 26,28; cfr Mc 14,24; Lc 22,20). Se si esaminano queste parole alla luce della loro filigrana biblica, affiorano due rimandi significativi. Il primo è costituito dalla locuzione “sangue versato” che, come attesta il linguaggio biblico (cfr Gen 9,6), è sinonimo di morte violenta. Il secondo consiste nella precisazione “per molti” riguardante i destinatari di questo sangue versato. L’allusione qui ci riporta a un testo fondamentale per la rilettura cristiana delle Scritture, il quarto canto di Isaia: col suo sacrificio, “consegnando se stesso alla morte”, il Servo del Signore “portava il peccato di molti” (Is 53,12; Eb 9,28; 1Pt 2,24).
3. La stessa dimensione sacrificale e redentrice dell’Eucaristia è espressa dalle parole di Gesù sul pane nell’Ultima Cena, così come sono riferite dalla tradizione di Luca e di Paolo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (Lc 22,19; cfr 1 Cor 11,24). Anche in questo caso si ha un rimando alla donazione sacrificale del Servo del Signore secondo il passo già evocato di Isaia (53,12): “Egli ha consegnato se stesso alla morte…; egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. “L’Eucaristia è, dunque, un sacrificio: sacrificio della redenzione e, al tempo stesso, della nuova alleanza, come crediamo e come chiaramente professano anche le Chiese d’Oriente. Il sacrificio odierno - ha affermato, secoli fa, la Chiesa greca (nel Sinodo Costantinopolitano contro Soterico del 1156-57) - è come quello che un giorno offrì l’unigenito incarnato Verbo di Dio, viene da lui offerto oggi come allora, essendo l’identico e unico sacrificio” (Lettera Apostolica Dominicae Cenae n. 9).
4. L’Eucaristia, come sacrificio della nuova alleanza, si pone quale sviluppo e compimento dell’alleanza celebrata sul Sinai quando Mosè ha versato metà del sangue delle vittime sacrificali sull’altare, simbolo di Dio, e metà sull’assemblea dei figli di Israele (cfr Es 24,5-8). Questo “sangue dell’alleanza” univa intimamente Dio e uomo in un legame di solidarietà. Con l’Eucaristia l’intimità diviene totale, l’abbraccio tra Dio e l’uomo raggiunge il suo apice. È il compiersi di quella “nuova alleanza” che aveva predetto Geremia (31,31-34): un patto nello spirito e nel cuore che la Lettera agli Ebrei esalta proprio partendo dall’oracolo del profeta, raccordandolo al sacrificio unico e definitivo di Cristo (cfr Eb 10,14-17).
5. A questo punto possiamo illustrare l’altra affermazione: l’Eucaristia è un sacrificio di lode. Essenzialmente orientato alla comunione piena tra Dio e l’uomo, “il sacrificio eucaristico è la fonte e il culmine di tutto il culto della Chiesa e di tutta la vita cristiana. A questo sacrificio di rendimento di grazie, di propiziazione, di impetrazione e di lode i fedeli partecipano con maggiore pienezza, quando non solo offrono al Padre con tutto il cuore, in unione con il sacerdote, la sacra vittima e, in essa, loro stessi, ma ricevono pure la stessa vittima nel sacramento” (Sacra Congregazione dei Riti, Eucharisticum Mysterium, n. 3 e). Come dice il termine stesso nella sua genesi greca, l’Eucaristia è “ringraziamento”; in essa il Figlio di Dio unisce a sé l’umanità redenta in un canto di azione di grazie e di lode. Ricordiamo che la parola ebraica todah, tradotta “lode”, significa anche “ringraziamento”. Il sacrificio di lode era un sacrificio di rendimento di grazie (crf Sal 50[49], 14.23). Nell’Ultima Cena, per istituire l’Eucaristia, Gesù ha reso grazie a suo Padre (cfr Mt 26,26-27 e paralleli); è questa l’origine del nome di questo sacramento.
6. “Nel Sacrificio eucaristico, tutta la creazione amata da Dio è presentata al Padre attraverso la morte e la risurrezione di Cristo” (CCC 1359). Unendosi al sacrificio di Cristo, la Chiesa nell’Eucaristia dà voce alla lode dell’intera creazione. A ciò deve corrispondere l’impegno di ciascun fedele a offrire la sua esistenza, il suo “corpo” - come dice Paolo - in “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1), in una comunione piena con Cristo. In questo modo un’unica vita unisce Dio e l’uomo, il Cristo crocifisso e risorto per tutti e il discepolo chiamato a donarsi interamente a Lui. Questa intima comunione d’amore è cantata dal poeta francese Paul Claudel che pone in bocca a Cristo queste parole: “Vieni con me, dove Io Sono, in te stesso, / e io ti darò la chiave dell’esistenza. / Là dove Io Sono, là eternamente / è il segreto della tua origine… / (…). Dove sono le tue mani che non siano le mie? / E i tuoi piedi che non siano confitti alla stessa croce? / Io sono morto e sono risorto una volta per tutte! Noi siamo vicinissimi l’uno all’altro / (…). Come fare per separarti da me / senza che tu mi strappi il cuore?” (La Messe là-bas).

Mercoledì, 18 ottobre 2000
L’Eucaristia, banchetto di comunione con Dio
1. “Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo e noi le sue membra, l’uomo totale è lui e noi” (Agostino, Tractatus in Jo. 21,8). Queste parole ardite di sant’Agostino esaltano la comunione intima che nel mistero della Chiesa si crea tra Dio e l’uomo, una comunione che, nel nostro cammino storico, trova il suo segno più alto nell’Eucaristia. Gli imperativi: “Prendete e mangiate… Bevetene…” (Mt 26,26-27) che Gesù rivolge ai suoi discepoli in quella sala al piano superiore di una casa di Gerusalemme, l’ultima sera della sua vita terrena (cfr Mc 14,15), sono densi di significato. Già il valore simbolico universale del banchetto offerto nel pane e nel vino (cfr Is 25,6), rimanda alla comunione e all’intimità. Elementi ulteriori più espliciti esaltano l’Eucaristia come convito di amicizia e di alleanza con Dio. Essa infatti - come il Catechismo della Chiesa cattolica ricorda - è “al tempo stesso e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce e il sacro banchetto della Comunione al Corpo e al Sangue del Signore” (CCC 1382).
2. Come nell’Antico Testamento il santuario mobile del deserto era chiamato “tenda del convegno”, cioè dell’incontro tra Dio e il suo popolo e dei fratelli di fede tra loro, l’antica tradizione cristiana ha chiamato “sinassi”, cioè “riunione”, la celebrazione eucaristica. In essa “si svela la natura profonda della Chiesa, comunità dei convocati alla sinassi per celebrare il dono di colui che è offerente e offerta: essi, partecipando ai santi misteri, divengono ‘consanguinei’ di Cristo, anticipando l’esperienza della divinizzazione nell’ormai inseparabile vincolo che lega in Cristo divinità e umanità” (Orientale Lumen n. 10). Se vogliamo approfondire il senso genuino di questo mistero di comunione tra Dio e i fedeli, dobbiamo ritornare alle parole di Gesù nell’ultima Cena. Esse rimandano alla categoria biblica dell’“alleanza”, evocata proprio attraverso la connessione del sangue di Cristo con quello sacrificale versato al Sinai: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza” (Mc 14,24). Mosè aveva dichiarato: “Ecco il sangue dell’alleanza” (Es 24,8). L’alleanza che al Sinai univa Israele al Signore con un vincolo di sangue, preannunciava la nuova alleanza, da cui deriva - per usare un’espressione dei Padri greci – come una consanguineità tra Cristo e il fedele (cf Cirillo Alessandrino, In Johannis Evangelium XI; Giovanni Crisostomo, In Matthaeum hom. LXXXII, 5).
3. Sono soprattutto le teologie giovannea e paolina ad esaltare la comunione del credente con Cristo nell’Eucaristia Nel discorso nella sinagoga di Cafarnao Gesù dice esplicitamente: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51). L’intero testo di quel discorso è proteso a sottolineare la comunione vitale che si stabilisce, nella fede, tra Cristo pane di vita e colui che ne mangia. In particolare appare il verbo greco tipico del quarto vangelo per indicare l’intimità mistica tra Cristo e il discepolo, ménein, “rimanere, dimorare”: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56; cf. 15,4-9).
4. Il vocabolo greco della “comunione”, koinonìa, emerge poi nella riflessione della Prima Lettera ai Corinzi, dove Paolo parla dei banchetti sacrificali dell’idolatria qualificandoli come “mensa dei demoni” (10,21), ed esprime un principio valido per tutti i sacrifici: “Quelli che mangiano le vittime sacrificali sono in comunione con l’altare” (10,18). Di questo principio l’Apostolo fa un’applicazione positiva e luminosa in rapporto all’Eucaristia: “Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione (koinonía) con il Sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione (koinonía) con il corpo di Cristo? (…). Tutti partecipiamo dell’unico pane” (10,16-17). “La partecipazione all’Eucaristia, sacramento della nuova alleanza, è quindi il vertice dell’assimilazione a Cristo, fonte di vita eterna, principio e forza del dono totale di sé” (Veritatis splendor n. 21).
5. Questa comunione con Cristo genera, pertanto, un’intima trasformazione del fedele. San Cirillo Alessandrino delinea in modo efficace questo evento mostrandone la risonanza nell’esistenza e nella storia: “Cristo ci forma secondo la sua immagine in modo che i lineamenti della sua divina natura risplendano in noi attraverso la santificazione, la giustizia e la vita buona e conforme a virtù. La bellezza di questa immagine risplende in noi che siamo in Cristo, quando ci mostriamo uomini buoni nelle opere” (Tractatus ad Tiberium Diaconum sociosque, II, Responsiones ad Tiberium Diaconum sociosque, in In divi Johannis Evangelium, vol. III, Bruxelles 1965, p. 590). “Partecipando al sacrificio della croce, il cristiano comunica con l’amore di donazione di Cristo ed è abilitato e impegnato a vivere questa stessa carità in tutti i suoi atteggiamenti e comportamenti di vita. Nell’esistenza morale si rivela e si attua il servizio regale cristiano” (Veritatis splendor n. 107). Tale servizio regale ha la sua radice nel battesimo e la sua fioritura nella comunione eucaristica. La via della santità, dell’amore, della verità è, dunque, la rivelazione al mondo della nostra intimità divina, attuata nel banchetto dell’Eucaristia. Lasciamo che il nostro desiderio della vita divina offerta in Cristo si esprima con i caldi accenti di un grande teologo della Chiesa armena, Gregorio di Narek (X sec.): “Non è dei suoi doni, ma del Donatore che ho sempre la nostalgia. Non è la gloria a cui aspiro, ma è il Glorificato che voglio abbracciare… Non è il riposo ciò che cerco, ma è il volto di Colui che dona riposo che io domando supplicando. Non è per il banchetto nuziale, ma per il desiderio dello Sposo che io languisco” (XII Preghiera).

Mercoledì, 25 ottobre 2000
L’Eucaristia apre al futuro di Dio
1. “Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste” (SC n.8; cfr GS n. 38). Queste parole così limpide ed essenziali del Concilio Vaticano II ci presentano una dimensione fondamentale dell’Eucaristia: il suo essere “futurae gloriae pignus”, pegno della gloria futura, secondo una bella espressione della tradizione cristiana (cfr SC n. 47). “Questo sacramento - osserva san Tommaso d’Aquino - non ci introduce subito nella gloria ma ci dà la forza di giungere alla gloria ed è per questo che è detto «viatico»” (Summa Th. III, 79, 2, ad I). La comunione con Cristo che ora viviamo mentre siamo pellegrini e viandanti nelle strade della storia anticipa l’incontro supremo del giorno in cui “noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Elia, che in cammino nel deserto si accascia privo di forze sotto un ginepro e viene rinvigorito da un pane misterioso fino a raggiungere la vetta dell’incontro con Dio (cfr 1Re 19,1-8), è un tradizionale simbolo dell’itinerario dei fedeli, che nel pane eucaristico trovano la forza per camminare verso la meta luminosa della città santa.
2. È questo anche il senso profondo della manna imbandita da Dio nelle steppe del Sinai, “cibo degli angeli” capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto, manifestazione della dolcezza (di Dio) verso i suoi figli (cfr Sap 16,20-21). Sarà Cristo stesso a far balenare questo significato spirituale della vicenda dell’Esodo. È lui a farci gustare nell’Eucaristia il duplice sapore di cibo del pellegrino e di cibo della pienezza messianica nell’eternità (cfr Is 25,6). Per mutuare un’espressione dedicata alla liturgia sabbatica ebraica, l’Eucaristia è un “assaggio di eternità nel tempo” (A. J. Heschel). Come Cristo è vissuto nella carne permanendo nella gloria di Figlio di Dio, così l’Eucaristia è presenza divina e trascendente, comunione con l’eterno, segno della “compenetrazione tra città terrena e città celeste” (GS n.40). L’Eucaristia, memoriale della Pasqua di Cristo, è di sua natura apportatrice dell’eterno e dell’infinito nella storia umana.
3. Questo aspetto che apre l’Eucaristia al futuro di Dio, pur lasciandola ancorata alla realtà presente, è illustrato dalle parole che Gesù pronunzia sul calice del vino nell’ultima cena (cfr Lc 22,20; 1Cor 11,25). Marco e Matteo evocano in quelle stesse parole l’alleanza nel sangue dei sacrifici del Sinai (cfr Mc 14,24; Mt 26,28; cfr Es 24,8). Luca e Paolo, invece, rivelano il compimento della “nuova alleanza” annunziata dal profeta Geremia: “Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e di Giuda io concluderò una nuova alleanza, non come l’alleanza conclusa coi vostri padri” (31,31-32). Gesù, infatti, dichiara: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”. ‘Nuovo’, nel linguaggio biblico, indica di solito progresso, perfezione definitiva. Sono ancora Luca e Paolo a sottolineare che l’Eucaristia è anticipazione dell’orizzonte di luce gloriosa propria del regno di Dio. Prima dell’Ultima Cena Gesù dichiara: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione; poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio. Preso un calice, rese grazie e disse: Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio” (Lc 22,15-18). Anche Paolo ricorda esplicitamente che la cena eucaristica è protesa verso l’ultima venuta del Signore: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,26).
4. Il quarto evangelista, Giovanni, esalta questa tensione dell’Eucaristia verso la pienezza del regno di Dio all’interno del celebre discorso sul “pane di vita”, che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao. Il simbolo da lui assunto come punto di riferimento biblico è, come già s’accennava, quello della manna offerta da Dio a Israele pellegrino nel deserto. A proposito dell’Eucaristia Gesù afferma solennemente: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno (…). Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (…). Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51.54.58). La ‘vita eterna’, nel linguaggio del quarto vangelo, è la stessa vita divina che oltrepassa le frontiere del tempo. L’Eucaristia, essendo comunione con Cristo, è quindi partecipazione alla vita di Dio che è eterna e vince la morte. Per questo Gesù dichiara: “La volontà di colui che mi ha mandato è che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno. Perché questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,39-40).
5. In questa luce - come diceva suggestivamente un teologo russo, Sergej Bulgakov - “la liturgia è il cielo sulla terra”. Per questo nella Lettera Apostolica Dies Domini, riprendendo le parole di Paolo VI, ho esortato i cristiani a non trascurare “questo incontro, questo banchetto che Cristo ci prepara nel suo amore. Che la partecipazione ad esso sia insieme degnissima e gioiosa! È il Cristo, crocifisso e glorificato, che passa in mezzo ai suoi discepoli, per trascinarli insieme nel rinnovamento della sua risurrezione. È il culmine, quaggiù, dell’alleanza d’amore tra Dio e il suo popolo: segno e sorgente di gioia cristiana, tappa per la festa eterna” (Gaudete in Domino, conclusione; Dies Domini 58).

Mercoledì, 8 novembre 2000
L’Eucaristia sacramento di unità
1. “Sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità!”. L’esclamazione di S. Agostino nel suo commento al Vangelo di Giovanni (In Johannis Evangelium 26,13) raccoglie idealmente e sintetizza le parole che Paolo ha rivolto ai Corinzi e che abbiamo appena ascoltato: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti, partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10,17). L’Eucaristia è il sacramento e la sorgente dell’unità ecclesiale. E ciò è stato ribadito fin dalle origini della tradizione cristiana, basandosi proprio sul segno del pane e del vino. Così, nella Didachè, uno scritto composto ai primordi del cristianesimo, si afferma: “Come questo pane spezzato era prima disperso sui monti e, raccolto, è divenuto una sola realtà, così si raccolga la tua Chiesa dai confini della terra nel tuo regno” (9,1).
2. San Cipriano, vescovo di Cartagine, facendo eco nel III secolo a queste parole, afferma: “Gli stessi sacrifici del Signore mettono in luce l’unanimità dei cristiani cementata con solida e indivisibile carità. Poiché quando il Signore chiama suo corpo il pane composto dall’unione di molti granelli, indica il nostro popolo adunato, che egli sostenta; e quando chiama suo sangue il vino spremuto dai molti grappoli e acini e fuso insieme, indica similmente il nostro gregge composto di una moltitudine unita insieme” (Ep. ad Magnum 6). Questo simbolismo eucaristico in rapporto all’unità della Chiesa torna frequentemente nei Padri e nei teologi scolastici. «Il Concilio di Trento ne ha compendiato la dottrina insegnando che il nostro Salvatore ha lasciato l’Eucaristia alla sua Chiesa “come simbolo della sua unità e della carità con la quale egli volle intimamente uniti tra loro tutti i cristiani”; e perciò essa è “simbolo di quell’unico corpo, di cui egli è il capo”» (Paolo VI, Mysterium fidei; cfr Conc.Trid., Decr. de SS. Eucharistia, proemio e c. 2). Il Catechismo della Chiesa Cattolica sintetizza con efficacia: “Coloro che ricevono l’Eucaristia sono uniti più strettamente a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo corpo: la Chiesa” (CCC 1395).
3. Questa dottrina tradizionale è fortemente radicata nella Scrittura. Paolo nel brano già citato della Prima Lettera ai Corinzi la sviluppa partendo da un tema fondamentale, quello della koinonía, cioè della comunione che si instaura tra il fedele e Cristo nell’Eucaristia. “Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione (koinonía) con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione (koinonía) con il corpo di Cristo?” (10,16). Questa comunione è descritta più precisamente nel vangelo di Giovanni come una relazione straordinaria di “interiorità reciproca”: ‘lui in me e io in lui’. Gesù, infatti, dichiara nella sinagoga di Cafarnao: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56). È un tema che sarà sottolineato anche nei discorsi dell’Ultima Cena mediante il simbolo della vite: il tralcio è verdeggiante e fruttifero solo se è innestato nel ceppo della vite da cui riceve linfa e sostegno (Gv 15,1-7). Altrimenti è solo un ramo secco e destinato al fuoco: aut vitis aut ignis, «o la vite o il fuoco», commenta in modo lapidario sant’Agostino (In Johannis - Evangelium 81,3). Si delinea qui un’unità, una comunione, che si attua tra il fedele e Cristo presente nell’Eucaristia, sulla base di quel principio che Paolo formula così: “Quelli che mangiano le vittime sacrificali sono in comunione con l’altare” (1 Cor 10,18).
4. Questa comunione-koinonía di tipo ‘verticale’ perché ci unisce al mistero divino, genera nel contempo una comunione-koinonía che possiamo dire ‘orizzontale’, ossia ecclesiale, fraterna, capace di unire in un legame d’amore tutti i partecipanti alla stessa mensa. “Pur essendo molti, siamo un corpo solo - ci ricorda Paolo -: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,17). Il discorso sull’Eucaristia anticipa la grande riflessione ecclesiale che l’Apostolo svilupperà nel capitolo 12 della stessa Lettera, quando parlerà del corpo di Cristo nella sua unità e molteplicità. Anche la celebre descrizione della Chiesa di Gerusalemme offerta da Luca negli Atti degli Apostoli delinea questa unità fraterna o koinonía connettendola alla frazione del pane, cioè alla celebrazione eucaristica (At 2,42). È una comunione che si compie nella concretezza della storia: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nella comunione fraterna (koinonía), nella frazione del pane e nella preghiera (…) Tutti coloro che erano divenuti credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune” (At 2,42-44).
5. Si rinnega perciò il significato profondo dell’Eucaristia, quando la si celebra senza tener conto delle esigenze della carità e della comunione. Paolo è severo con i Corinzi perché il loro radunarsi insieme “non è più un mangiare la cena del Signore” (1Cor 11,20) a causa delle divisioni, delle ingiustizie, degli egoismi. In tal caso l’Eucaristia non è più agape, cioè espressione e fonte di amore. E chi partecipa indegnamente, senza farla sbocciare in carità fraterna, “mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,29). “Se la vita cristiana si esprime nell’adempimento del più grande comandamento, e cioè nell’amore di Dio e del prossimo, questo amore trova la sua sorgente proprio nel santissimo sacramento, che comunemente è chiamato: sacramento dell’amore” (Dominicae coenae n. 5). L’Eucaristia ricorda, rende presente e genera questa carità. Raccogliamo, allora, l’appello del vescovo e martire Ignazio che esortava all’unità i fedeli di Filadelfia in Asia Minore: “Una sola è la carne di nostro Signore Gesù Cristo, uno solo è il calice nell’unità del suo sangue, uno solo l’altare, come uno è il Vescovo” (Ep. ad Philadelphenses 4). E con la liturgia preghiamo Dio Padre: “A noi che ci nutriamo del corpo e del sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (Preghiera eucaristica III).

Mercoledì, 15 novembre 2000
"La Parola, l’Eucaristia e i cristiani divisi" (Lettura: Gv 17,20-21)
1. Nel programma di quest’anno giubilare non poteva mancare la dimensione del dialogo ecumenico e di quello interreligioso, come già indicavo nella Tertio millennio adveniente (cfr nn. 53 e 55). La linea trinitaria ed eucaristica che abbiamo sviluppato nelle precedenti catechesi ci conduce ora a sostare su questo versante, prendendo in considerazione innanzitutto il problema della ricomposizione dell’unità tra i cristiani. Lo facciamo alla luce della narrazione evangelica sui discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35), osservando il modo in cui i due discepoli, che si allontanavano dalla comunità, furono spinti a fare il cammino inverso e a ritrovarla.
2. I due discepoli voltavano le spalle al luogo in cui Gesù era stato crocifisso, perché questo evento era per loro una delusione crudele. Per lo stesso fatto, si allontanavano dagli altri discepoli e tornavano, per così dire, all’individualismo. ‘Conversavano di tutto quello che era accaduto’ (Lc 24,14), senza capirne il senso. Non capivano che Gesù era morto ‘per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi’ (Gv 11,52). Vedevano soltanto l’aspetto tremendamente negativo della croce, che rovinava le loro speranze: ‘Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele!’ (Lc 24,21). Gesù risorto si accosta e cammina con loro, ‘ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo’ (Lc 24,16), perché dal punto di vista spirituale, si trovavano nelle tenebre più oscure. Gesù allora s’impegna con ammirevole pazienza a rimetterli nella luce della fede per mezzo di una lunga catechesi biblica: ‘Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui’ (Lc 24,27). Il loro cuore cominciò a ardere (cfr Lc 24,32). Pregarono il loro misterioso compagno di restare con loro. ‘Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista’ (Lc 24, 30-31). Grazie alla spiegazione luminosa delle Scritture, erano passati dalle tenebre dell’incomprensione alla luce della fede ed erano divenuti capaci di riconoscere Cristo risorto ‘nello spezzare il pane’ (Lc 24,35). L’effetto di questo cambiamento profondo fu un impulso a ripartire senza indugio e a fare ritorno a Gerusalemme per raggiungere ‘gli Undici e gli altri che erano con loro’ (Lc 24,33). Il cammino di fede aveva reso possibile l’unione fraterna.
3. Il nesso tra l’interpretazione della parola di Dio e l’Eucaristia appare anche altrove nel Nuovo Testamento. Giovanni nel suo Vangelo intreccia questa parola all’Eucaristia quando nel discorso di Cafarnao ci presenta Gesù che evoca il dono della manna nel deserto reinterpretandolo in chiave eucaristica (cfr Gv 6,32-58). Nella Chiesa di Gerusalemme, l’assiduità ad ascoltare la didaché, cioè l’insegnamento apostolico basato sulla parola di Dio, precedeva la partecipazione alla ‘frazione del pane’ (At 2,42). A Troade, quando i cristiani si riunirono attorno a Paolo per ‘spezzare il pane’, Luca riferisce che il raduno cominciò con lunghi discorsi dell’Apostolo (cfr At 20,7), certamente per nutrire la fede, la speranza e la carità. Da tutto questo risulta chiaro che l’unione nella fede è la condizione previa alla partecipazione comune all’Eucaristia.
Con la Liturgia della Parola e l’Eucaristia - come ci ricorda il Concilio Vaticano II citando san Giovanni Crisostomo (In Joh. hom. 46) - ‘i fedeli uniti col Vescovo hanno accesso a Dio Padre per mezzo del Figlio, Verbo incarnato, morto e glorificato, nell’effusione dello Spirito Santo, ed entrano in comunione con la Santissima Trinità, fatti ‘partecipi della natura divina’ (2Pt 1,4). Perciò per mezzo della celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e per mezzo della celebrazione si manifesta la loro comunione’ (Unitatis redintegratio, n. 15). Questo legame col mistero dell’unità divina genera, dunque, un vincolo di comunione e di amore tra coloro che sono assisi all’unica mensa della Parola e dell’Eucaristia. L’unica mensa è segno e manifestazione dell'unità. ‘Di conseguenza, la comunione eucaristica è inseparabilmente legata alla piena comunione ecclesiale e alla sua espressione visibile’ (La ricerca dell=unità - Direttorio ecumenico1993, n. 129).
4. In questa luce si comprende come le divisioni dottrinali esistenti tra i discepoli di Cristo raccolti nelle diverse Chiese e Comunità ecclesiali limitino la piena condivisione sacramentale. Il Battesimo è, tuttavia, la radice profonda di un’unità fondamentale che lega i cristiani nonostante le loro divisioni. Se pertanto la partecipazione alla medesima Eucaristia rimane esclusa per i cristiani ancora divisi, è possibile introdurre nella Celebrazione eucaristica, in casi specifici previsti dal Direttorio ecumenico, alcuni segni di partecipazione che esprimono l’unità già esistente e vanno nella direzione della piena comunione delle Chiese attorno alla mensa della Parola e del Corpo e Sangue del Signore. Così, ‘in occasioni eccezionali e per una giusta causa il Vescovo diocesano può permettere che un membro di un’altra Chiesa o Comunità ecclesiale svolga la funzione di lettore durante la Celebrazione eucaristica della Chiesa cattolica’ (n. 133). Similmente ‘ogniqualvolta una necessità lo esiga o una vera utilità spirituale lo consigli e purché sia evitato il pericolo di errore o di indifferentismo’, tra cattolici e cristiani orientali è lecita una certa reciprocità per i sacramenti della penitenza, dell’Eucaristia e dell’unzione degli infermi (cfr nn. 123-131).
5. Tuttavia l’albero dell’unità deve crescere fino alla sua piena espansione, come Cristo ha invocato nella grande preghiera del Cenacolo qui proclamata in apertura (cfr Gv 17,20-26; UR n.22). I limiti nell’intercomunione davanti alla mensa della Parola e dell’Eucaristia devono trasformarsi in un appello alla purificazione, al dialogo, al cammino ecumenico delle Chiese. Sono limiti che ci fanno sentire più fortemente, proprio nella Celebrazione eucaristica, il peso delle nostre lacerazioni e contraddizioni. L’Eucaristia è così una sfida e una provocazione posta nel cuore stesso della Chiesa per ricordarci l’intenso, estremo desiderio di Cristo: ‘Siano una cosa sola’ (Gv 17,11.21). La Chiesa non dev’essere un corpo di membra divise e doloranti, ma un organismo vivo e forte che avanza sostenuto dal pane divino, come è prefigurato nel cammino di Elia (cfr 1 Re 19,1-8), fino alla vetta dell’incontro definitivo con Dio. Là finalmente si compirà la visione dell’Apocalisse: ‘Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una Sposa adorna per il suo Sposo’ (21,2).


AUDIENCE GÉNÉRALE

Mercredi 27 Septembre 2000
Lecture: Jn 17, 1-3
1. Selon les orientations proposées par Tertio millennio adveniente, cette année jubilaire, célébration solennelle de l'Incarnation, doit être une année "intensément eucharistique" (TMA, n. 55). C'est pourquoi, après avoir tourné le regard vers la gloire de la Trinité qui resplendit sur le chemin de l'homme, nous commençons une catéchèse sur cette grande, et dans le même temps humble célébration de la gloire divine qui est l'Eucharistie. Grande parce qu'elle est l'expression principale de la présence du Christ parmi nous "pour toujours jusqu'à la fin du monde" (Mt 28, 20); humble parce qu'elle est confiée aux signes simples et quotidiens du pain et du vin, nourriture et boisson ordinaires de la terre de Jésus et de nombreuses autres régions. Dans cet aspect quotidien des aliments, l'Eucharistie introduit non seulement la promesse, mais le "gage" de la gloire future: "futurae gloriae nobis pignus datur" (Saint Thomas d'Aquin, Officium de festo corporis Christi). Pour saisir la grandeur du mystère eucharistique, nous voulons aujourd'hui considérer le thème de la gloire divine et de l'action de Dieu dans le monde, parfois manifestée par de grands événements de salut, parfois cachée sous d'humbles signes, que seul l'oeil de la foi peut percevoir.
2. Dans l'Ancien Testament, on indique par le vocable hébraïque kabód la révélation de la gloire divine et la présence de Dieu dans l'histoire et dans la création. La gloire du Seigneur resplendit au sommet du Sinaï, lieu de révélation de la Parole divine (cf. Ex 24, 16). Elle est présente sur la tente sainte et dans la liturgie du Peuple de Dieu pèlerin dans le désert (cf. Lv 9, 23). Elle domine dans le temple, la demeure - comme le dit le Psalmiste - "ou habite ta gloire" (Ps 26, 8). Elle enveloppe comme un manteau de lumière (cf. Is 60, 1) tout le peuple élu: Paul lui-même est conscient qu'aux "Israélites appartiennent l'adoption filiale, la gloire, les alliances..." (cf. Rm 9, 4).
3. Cette gloire divine qui se manifeste de façon particulière à Israël est présente dans tout l'univers, comme le prophète Isaïe l'a entendu proclamer par les séraphins au moment de sa vocation: "Saint, saint, saint est Yahvé Sabaot, sa gloire emplit toute la terre" (Is 6, 3). Le Seigneur révèle même sa gloire à tous les peuples, comme on le lit dans le Livre du Psalmiste: "Tous les peuples voient sa gloire" (Ps 97, 6). L'embrasement de la lumière de la gloire est donc universel, c'est pourquoi toute l'humanité peut découvrir la présence divine dans le cosmos. C'est surtout dans le Christ que s'accomplit cette révélation car il est "resplendissement de la gloire" divine (He 1, 3). Il l'est également à travers ses oeuvres, comme en témoigne l'évangéliste Jean face au signe de Cana: le Christ "manifesta sa gloire et ses disciples crurent en lui" (Jn 2, 11). Il irradie la gloire divine également à travers sa parole qui est parole divine: "Je leur ai donné ta parole", dit Jésus au Père, "je leur ai donné la gloire que tu m'as donnée" (Jn 17, 14.22). Plus radicalement le Christ manifeste la gloire divine à travers son humanité, assumée dans l'incarnation: "Et le Verbe s'est fait chair et il a habité parmi nous, et nous avons contemplé sa gloire, gloire qu'il tient de son Père comme Fils unique, plein de grâce et de vérité" (Jn 1, 14).
4. La révélation terrestre de la gloire divine atteint son sommet dans la Pâque qui, en particulier dans les écrits johanniques et pauliniens, est décrite comme une glorification du Christ à la droite du Père (cf. Jn 12, 23; 13, 31; 17, 1; Ph 2, 6-11; Col 3, 1; Tm 3, 16). A présent, le mystère pascal, expression de la "parfaite glorification de Dieu" (SC, n. 7), se perpétue dans le sacrifice eucharistique, mémorial de la mort et de la résurrection confié par le Christ à l'Eglise son épouse bien-aimée (cf. SC, n. 47). Par le commandement "Faites cela en mémoire de moi" (Lc 22, 19) Jésus assure la présence de la gloire pascale à travers toutes les célébrations eucharistiques qui rythmeront le cours de l'histoire. "A travers la sainte Eucharistie l'événement de la Pâque du Christ se répand dans toute l'Eglise [...] A travers la communion au corps et au sang du Christ, les fidèles croissent dans la divinisation mystérieuse qui, grâce à l'Esprit Saint, les fait habiter dans le Fils en tant que fils du Père" (Jean-Paul II et Moran Mar Ignatius Zakka I Iwas, Déclaration commune 23.6.1984, n. 6: EV 9, 842).
5. Il ne fait aucun doute que la célébration la plus élevée de la gloire divine se trouve aujourd'hui dans la liturgie: "Parce que la mort du Christ en croix et sa résurrection constituent le contenu de la vie quotidienne de l'Eglise et le gage de sa Pâque éternelle, la liturgie a pour première tâche de nous ramener inlassablement sur le chemin pascal ouvert par le Christ, où l'on con-sent à mourir pour entrer dans la vie" (Lettre apostolique Vicesimus quintus annus, n. 6). A présent, cette tâche s'exerce tout d'abord au moyen de la célébration eucharistique, qui rend présente la Pâque du Christ et en communique le dynamisme aux fidèles. Ainsi, le culte chrétien est l'expression la plus vive de la rencontre entre la gloire divine et la glorification qui s'élève des lèvres et du coeur de l'homme. A la "gloire de Yahvé qui emplit la demeure" (cf. Ex 40, 34) doit correspondre notre "glorification du Seigneur avec générosité" (Si 35, 7).
6. Comme nous le rappelle saint Paul, nous devons également glorifier Dieu dans notre corps, c'est-à-dire dans l'existence tout entière, parce que notre corps est le temple de l'Esprit qui est en nous (cf. 1 Co 6, 19.20). Dans cette optique, on peut également parler d'une célébration cosmique de la gloire divine. Le monde créé "souvent déformé par l'égoïsme et l'avidité", possède en soi "une potentialité eucharistique": "celui-ci est destiné à être assumé dans l'Eucharistie du Seigneur, dans sa Pâque présente dans le sacrifice de l'autel" (Orientale lumen, n. 11) A la présence de la gloire du Seigneur qui est "plus haute que tous les cieux" (Ps 113, 4) et qui rayonne sur l'univers répondra alors, en contrepoint harmonique, la louange du choeur de la création afin "qu'en tout Dieu soit glorifié par Jésus-Christ, à qui sont la gloire et la puissance pour les siècles des siècles. Amen!" (1 P 4, 11).

Mercredi 4 octobre 2000
Lecture: 1 Co 11, 23-26
1. Parmi les multiples aspects de l'Eucharistie se détache celui du "mémorial", qui est en relation avec un thème biblique de première importance. Nous lisons, par exemple, dans le livre de l'Exode: "Dieu se souvint de son Alliance avec Abraham, Isaac et Jacob" (Ex 2, 24). En revanche, dans le Deutéronome, nous lisons: "Souviens-toi de Yahvé ton Dieu" (8, 18). "Rappelle-toi donc de ce que Yahvé ton Dieu a fait..." (7, 18). Dans la Bible, le souvenir de Dieu et le souvenir de l'homme se mêlent et constituent une composante fondamentale de la vie du Peuple de Dieu. Il ne s'agit cependant pas de la pure commémoration d'un passé désormais éteint, mais bien d'un zikkarôn, c'est-à-dire un "mémorial". Celui-ci "n'est pas seulement le souvenir des événements du passé, mais la proclamation des merveilles que Dieu a accomplies pour les hommes. Dans la célébration liturgique de ces événements, ils deviennent d'une certaine façon présents et actuels" (Catéchisme de l'Eglise catholique, n. 1363). Le mémorial rappelle un lien d'alliance qui est toujours présent: "Yahvé se souvient de nous, il bénira la maison d'Israël" (Ps 115, 12). La foi biblique implique donc le souvenir efficace des oeuvres merveilleuses de salut. Celles-ci sont professées dans le "Grand Hallel", le Psaume 136, qui - après avoir proclamé la création et le salut offert à Israël dans l'Exode - conclut: "Il se souvint de nous dans notre abaissement, car éternel est son amour! [...] A toute chair, il donne le pain, car éternel est son amour" (Ps 136, 23-25). Nous trouverons des paroles semblables sur les lèvres de Marie et de Zacharie dans l'Evangile: "Il est venu en aide à Israël, son serviteur, se souvenant de sa miséricorde [...] Ainsi se souvient-il de son alliance sainte" (Lc 1, 54-72).
2. Dans l'Ancien Testament, le "mémorial" par excellence des oeuvres de Dieu dans l'histoire, était la liturgie pascale de l'Exode: chaque fois que le peuple d'Israël célébrait la Pâque, Dieu lui offrait de façon efficace le don de la liberté et du salut. Dans le rite pascal se retrouvaient donc deux souvenirs, divin et humain, c'est-à-dire la grâce salvifique et la foi reconnaissante: "Ce jour-là vous en ferez mémoire et vous le fêterez comme une fête pour Yahvé [...] Ce sera pour toi un signe sur ta main, un mémorial sur ton front, afin que la loi de Yahvé soit toujours dans ta bouche, car c'est à main forte que Yahvé t'a fait sortir d'Egypte" (Ex 12, 14; 13, 9). En vertu de cet événement, comme l'affirmait un philosophe juif, Israël sera toujours "une communauté fondée sur le souvenir" (M. Buber).
3. Le lien entre le souvenir de Dieu et celui de l'homme se trouve également au centre de l'Eucharistie qui est le "mémorial" par excellence de la Pâque chrétienne. L'"anamnèse", c'est-à-dire l'action de se rappeler, est en effet le coeur de la célébration: le sacrifice du Christ, événement unique, accompli ef'hapax, c'est-à-dire "une fois pour toutes" (He 7, 27; 9, 12.26; 10, 12), diffuse sa présence salvifique dans le temps et dans l'espace de l'histoire humaine. Cela est exprimé dans l'impératif final que Luc et Paul rapportent dans le récit de la Dernière Cène: "Ceci est mon corps, qui est pour vous; faites ceci en mémoire de moi [...] Cette coupe est la nouvelle Alliance en mon sang; chaque fois que vous en boirez, faites-le en mémoire de moi" (1 Co 11, 24-25; cf. Lc 22, 19). Le passé du "corps donné pour nous" sur la Croix se présente vivant dans l'aujourd'hui et, comme le déclare Paul, s'ouvre à l'avenir de la rédemption finale: "Chaque fois en effet que vous mangez ce pain et que vous buvez cette coupe, vous annoncez la mort du Seigneur, jusqu'à ce qu'il vienne" (1 Co 11, 26). L'Eucharistie est donc le mémorial de la mort du Christ, mais est également présence de son sacrifice et anticipation de sa venue glorieuse. Elle est le sacrement de la proximité salvifique permanente du Seigneur ressuscité dans l'histoire. On comprend donc l'exhortation de Paul à Timothée: "Souviens-toi de Jésus- Christ, ressuscité d'entre les morts, issu de la race de David" (2 Tm 2, 8). Ce souvenir vit et agit de façon spéciale dans l'Eucharistie.
4. L'évangéliste Jean nous explique le sens profond du "souvenir" des paroles et des événements du Christ. Face au geste de Jésus qui purifie le temple des marchands et annonce qu'il sera détruit et reconstruit en trois jours, il note: "Quand il ressuscita d'entre les morts, ses disciples se rappelèrent qu'il avait dit cela, et ils crurent à l'Ecriture et à la parole qu'il avait dite" (Jn 2, 22). Cette mémoire qui engendre et alimente la foi est opérée par l'Esprit Saint que "le Père enverra au nom" du Christ: "Lui, vous enseignera tout et vous rappellera tout ce que je vous ai dit" (Jn 14, 26). Il y a donc un souvenir efficace: le souvenir intérieur qui conduit à la compréhension de la Parole de Dieu et le souvenir sacramentel qui se réalise dans l'Eucharistie. Ce sont les deux réalités de salut que Luc a unies dans le splendide récit des disciples d'Emmaüs, rythmé par l'explication des Ecritures et par la "fraction du pain" (cf. Lc 24, 13-35).
5. "Faire mémoire" signifie donc "ramener dans le coeur" dans la mémoire et dans l'affection, mais c'est également célébrer une présence. "L'Eucharistie, véritable mémorial du mystère pascal du Christ, peut faire que ce souvenir de son amour vive en nous. C'est pour cela que l'Eglise reste en état de veille; sinon, si l'efficacité divine de ces stimulations, continuelles et très douces, ne la touchait pas, si elle ne ressentait pas la force vive des yeux de son Epoux fixés sur elle, elle serait très facilement oublieuse, tiède, infidèle" (Lettre apostolique Patres Ecclesiae, III: Ench. Vat., 7, 33). Cet appel à la vigilance rend nos liturgies eucharistiques ouvertes à la pleine venue du Seigneur, à l'apparition de la Jérusalem céleste. Dans l'Eucharistie, le chrétien affermit l'espérance de sa rencontre définitive avec son Seigneur.

Mercredi 11 Octobre 2000
Chers Frères et Sœurs,
L’Eucharistie est le sacrifice de louange parfait, la source et le sommet de toute vie chrétienne, où tous les fidèles offrent au Père la victime divine, et s’offrent eux-mêmes à Dieu avec elle (cf. Lumen gentium, n. 11). Dans l’Eucharistie, se réalise le sacrifice rédempteur du Christ, réellement présent. Jésus, le serviteur évoqué par le livre d’Isaïe, porte le péché du monde et donne sa vie pour le salut de la multitude. Il accomplit l’alliance, rétablissant totalement la relation entre Dieu et l’homme.
L’Eucharistie est aussi une louange, l’action de grâce du Christ à son Père; par elle, l’Église s’unit au Fils de Dieu et se fait ainsi la voix de l’humanité rachetée. De cette manière, une profonde communion d’amour relie Dieu et l’homme, relie le Christ, crucifié et ressuscité pour tous, et le disciple appelé à se donner totalement à lui.

Mercredi 18 octobre 2000
Lecture: Jn 6, 53-58
1. "Nous sommes devenus le Christ. En effet, s'il est la tête et nous ses membres, l'homme total est lui et nous" (Augustin, Tractatus in Jo. 21, 8). Ces paroles fortes de saint Augustin exaltent la communion intime qui, dans le mystère de l'Eglise, se crée entre Dieu et l'homme, une communion qui, sur notre chemin historique, trouve son signe le plus élevé dans l'Eucharistie. Les impératifs: "Prenez et mangez... Buvez-en..." (Mt 26, 26-27) que Jésus adresse à ses disciples dans la salle à l'étage supérieur d'une maison de Jérusalem, le dernier soir de sa vie terrestre (cf. Mc 14, 15), sont riches de signification. La valeur symbolique universelle du banquet offert dans le pain et dans le vin (cf. Is 25, 6), renvoie déjà à la communion et à l'intimité. Des éléments supplémentaires plus explicites exaltent l'Eucharistie comme banquet d'amitié et d'alliance avec Dieu. Celle-ci, en effet, - comme le rappelle le Catéchisme de l'Eglise catholique, - est "à la fois et inséparablement le mémorial sacrificiel dans lequel se perpétue le sacrifice de la Croix, et le banquet sacré de la communion au Corps et au Sang du Seigneur" (CEC, n. 1382).
2. De même que dans l'Ancien Testament, le sanctuaire mobile du désert était appelé "tente du colloque", c'est-à-dire de la rencontre entre Dieu et son peuple et des frères de foi entre eux, l'antique tradition chrétienne a appelé "synaxe", c'est-à-dire "réunion", la célébration eucharistique. En celle-ci "se révèle la nature profonde de l'Eglise, communauté de ceux qui ont été convoqués à la synaxe pour célébrer le don de Celui qui est à la fois offrant et offert: participant aux Saints Mystères, ils deviennent "consanguins" du Christ, anticipant l'expérience de la divinisation dans le lien désormais inséparable qui unit dans le Christ divinité et humanité" (Orientale lumen, n. 10). Si nous voulons approfondir le sens authentique de ce mystère de communion entre Dieu et les fidèles, nous devons revenir aux paroles de Jésus lors de la dernière Cène. Celles-ci renvoient à la catégorie biblique de l'"alliance", évoquée précisément à travers la liaison entre le sang du Christ et celui du sacrifice versé sur le Sinaï: "Ceci est mon sang, le sang de l'Alliance" (Mc 14, 24). Moïse avait déclaré: "Ceci est le sang de l'Alliance" (Ex 24, 8). L'Alliance qui, au Sinaï, unissait Israël au Seigneur par un lien du sang, préannonçait la nouvelle alliance, dont dérive - pour utiliser une expression des Pères grecs - comme une consanguinité entre le Christ et le fidèle (cf. Cyrille Alexandrin, In Johannis Evangelium XI; Jean Chrysostome, In Matthaeum hom. LXXXII, 5).
3. Ce sont surtout les théologies johanniques et pauliniennes qui exaltent la communion du croyant avec le Christ dans l'Eucharistie. Lors du discours dans la synagogue de Capharnaüm, Jésus dit explicitement: "Je suis le pain vivant, descendu du ciel. Qui mangera ce pain vivra à jamais" (Jn 6, 51). Le texte tout entier de ce discours vise à souligner la communion vitale qui s'établit, dans la foi, entre le Christ pain de vie et celui qui en mange. En particulier apparaît le verbe grec typique du quatrième Evangile pour indiquer l'intimité mystique entre le Christ et le disciple, ménein, "rester, demeurer": "Qui mange ma chair et boit mon sang demeure en moi et moi en lui" (Jn 6, 56; cf. 15, 4-9).
4. Le terme grec de la "communion", koinonìa, apparaît ensuite dans la réflexion de la première Epître aux Corinthiens, où Paul parle des banquets sacrificiels de l'idôlatrie, les qualifiant de "table des démons" (10, 21), et exprime un principe valable pour tous les sacrifices: "Ceux qui mangent les victimes ne sont-ils pas en communion avec l'autel?" (10, 18). L'Apôtre donne un exemple positif et lumineux de ce principe en rapport avec l'Eucharistie: "La coupe de bénédiction que nous bénissons, n'est-elle pas en communion (koinonía) au sang du Christ? Le pain que nous rompons, n'est-il pas en communion (koinonía) au corps du Christ? [...] Tous, nous participons à ce pain unique" (10, 16-17). "La participation à l'Eucharistie, sacrement de la Nouvelle Alliance, est le plus haut degré de l'assimilation au Christ, source de "vie éternelle", principe et force du don total de soi" (Veritatis splendor, n. 21).
5. Cette communion avec le Christ engendre donc une transformation intime du fidèle. Saint Cyrille Alexandrin décrit de façon efficace cet événement, en montrant son retentissement dans l'existence et dans l'histoire: "Le Christ nous forme selon son image de façon à ce que les traits de sa nature divine resplendissent en nous à travers la sanctification, la justice et une vie bonne et conforme aux vertus. La beauté de cette image resplendit en nous qui sommes dans le Christ, lorsque nous nous montrons des hommes bons dans les oeuvres" (Tractatus ad Tiberium Diaconum sociosque, II, Responsiones ad Tiberium Diaconum sociosque in In divi Johannis Evangelium, vol. III, Bruxelles 1965, p. 590). "En participant au sacrifice de la Croix, le chrétien communie à l'amour oblatif du Christ, il est rendu apte et il est engagé à vivre la même charité à travers toutes les attitudes et tous les comportements de sa vie. Dans l'existence morale, on voit aussi à l'oeuvre le service royal du chrétien" (Veritatis splendor, n. 107). Ce service royal a ses racines dans le baptême et sa floraison dans la communion eucharistique. La voie de la sainteté, de l'amour, de la vérité est, donc, la révélation au monde de notre intimité divine, réalisée dans le banquet eucharistique. Laissons notre désir de la vie divine offerte en Christ s'exprimer avec les accents chaleureux d'un grand théologien de l'Eglise arménienne, Grégoire de Narek (X siècle): "Ce n'est pas de ses dons, mais du Donateur que j'ai toujours la nostalgie. Ce n'est pas la gloire à laquelle j'aspire, mais c'est le Glorifié que je désire embrasser [...] Ce n'est pas le repos que je cherche, mais le visage de Celui qui donne le repos que je demande en suppliant. Ce n'est pas du banquet nuptial, mais du désir de l'époux que je me languis" (XII Prière).

Mercredi 25 Octobre 2000
Lecture: Jn 6, 48-51
1. "Dans la liturgie terrestre, nous participons par un avant-goût à cette liturgie céleste" (Sacrosanctum concilium, n. 8; Gaudium et spes, n. 38). Ces mots si clairs et essentiels du Concile Vatican II nous présentent une dimen-sion fondamentale de l'Eucharistie: le fait qu'elle soit "futurae gloriae pignus", gage de la gloire future, selon une belle expression de la tradition chrétienne (cf. SC, n. 47). "Ce sacrement - observe saint Thomas d'Aquin - ne nous introduit pas immédiatement dans la gloire, mais nous donne la force de parvenir à la gloire et c'est pour cette raison qu'il est appelé "viatique"" (Summa Th. III, 79, 2 ad I). La communion avec le Christ que nous vivons à présent, alors que nous sommes des pèlerins et des voyageurs sur les routes de l'histoire, anticipe la rencontre suprême du jour où "nous serons semblables à lui parce que nous le verrons tel qu'il est" (1 Jn 3, 2). Elie, qui lors de sa marche dans le désert s'effondre privé de forces sous un genévrier et qui est ranimé par un pain mystérieux jusqu'à atteindre le sommet de la rencontre avec Dieu (cf. 1 R 19, 1-8), est un symbole traditionnel de l'itinéraire des fidèles, qui trouvent dans le pain eucharistique la force pour marcher vers le but lumineux de la ville sainte.
2. Tel est également le sens profond de la manne préparée par Dieu dans le désert du Sinaï, "nourriture des anges" capable de procurer toutes sortes de délices, et de satisfaire tous les goûts, manifestation de la douceur de Dieu envers ses fils (cf. Sg 16, 20-21). Ce sera le Christ lui-même qui fera apparaître cette signification spirituelle de l'épisode de l'Exode. C'est lui qui nous fait goûter dans l'Eucharistie la double saveur de nourriture du pèlerin et de nourriture de la plénitude messianique dans l'éternité (cf. Is 25, 6). Pour emprunter une expression consacrée à la liturgie du sabbat hébraïque, l'Eucharistie est un "avant-goût de l'éternité dans le temps" (A. J. Heschel). Comme le Christ a vécu dans la chair tout en demeurant dans la gloire de Fils de Dieu, de même, l'Eucharistie est une présence divine et transcendante, communion avec l'éternel, signe de la "compénétration de la cité terrestre et de la cité céleste" (GS, n. 40). L'Eucharistie, mémorial de la Pâque du Christ, est de par sa nature porteuse de l'éternité et de l'infini de l'histoire humaine.
3. Cet aspect qui ouvre l'Eucharistie à l'avenir de Dieu, tout en la laissant ancrée dans la réalité présente, est illustré par les paroles que Jésus prononce à propos de la coupe de vin, au cours de la dernière Cène (cf. Lc 22, 20; 1 Co 11, 25). Marc et Matthieu évoquent dans ces mêmes paroles l'alliance dans le sang des sacrifices du Sinaï (cf. Mc 14, 24; Mt 26, 28; Ex 24, 8). Luc et Paul, en revanche, révèlent l'accomplissement de la "nouvelle alliance" annoncée par le prophète Jérémie: "Voici venir des jours - oracle de Yahvé - ou je conclurai avec la maison d'Israël (et la maison de Juda) une alliance nouvelle. Non pas comme l'alliance que j'ai conclue avec leurs pères" (31, 31-32). En effet, Jésus déclare: "Cette coupe est la nouvelle alliance en mon sang". Le terme "nouveau", dans le langage biblique, indique d'habitude le progrès, la perfection définitive. Ce sont encore Luc et Paul qui soulignent que l'Eucharistie est l'anticipation de l'horizon de lumière glorieuse propre au règne de Dieu. Avant la Dernière Cène, Jésus déclare: "J'ai ardemment désiré manger cette Pâque avec vous avant de souffrir; car je vous le dis: jamais plus je ne la mangerai jusqu'à ce qu'elle s'accomplisse dans le Royaume de Dieu. Puis, ayant reçu une coupe, il rendit grâce et dit: "Prenez ceci et partagez entre vous; car je vous le dis, je ne boirai plus désormais du produit de la vigne jusqu'à ce que le Royaume de Dieu soit venu"" (Lc 22, 15-18). Paul rappelle lui-aussi explicitement que la cène eucharistique est orientée vers la dernière venue du Seigneur: "Chaque fois en effet que vous mangez ce pain et que vous buvez cette coupe, vous annoncez la mort du Seigneur jusqu'à ce qu'il vienne" (1 Co 11, 26).
4. Le quatrième évangéliste, Jean, exalte cette orientation de l'Eucharistie vers la plénitude du Royaume de Dieu dans le célèbre discours sur le "pain de vie" que Jésus tient dans la synagogue de Capharnaüm. Le symbole qu'il a pris comme point de référence biblique est, comme on l'a déjà mentionné, celui de la manne offerte par Dieu à Israël en pèlerinage dans le désert. A propos de l'Eucharistie, Jésus affirme solennellement: "Qui mangera ce pain vivra à jamais [...] Qui mange ma chair et boit mon sang a la vie éternelle et je le ressusciterai au dernier jour [...] Voici le pain descendu du ciel; il n'est pas comme celui qu'ont mangé les pères et ils sont morts; qui mange ce pain vivra à jamais" (Jn 6, 51.54.58). La "vie éternelle", dans le langage du quatrième Evangile, est la vie divine elle-même, qui dépasse les frontières du temps. L'Eucharistie, étant communion avec le Christ, est donc participation à la vie de Dieu qui est éternelle et qui vainc la mort. C'est pourquoi Jésus déclare: "Or c'est la volonté de celui qui m'a envoyé que je ne perde rien de tout ce qu'il m'a donné mais que je ressuscite au dernier jour. Oui, telle est la volonté de mon Père, que quiconque voit le Fils et croit en lui ait la vie éternelle" (Jn 6, 39-40).
5. Sous cette lumière - comme le disait de façon suggestive un théologien russe, Sergej Bulgakov - "La liturgie est le ciel sur la terre". C'est pourquoi, dans la Lettre apostolique Dies Domini, en reprenant les paroles de Paul VI, j'ai exhorté les chrétiens à ne pas négliger "cette rencontre, ce banquet que le Christ nous prépare dans son amour. Que la participation y soit à la fois très digne et festive! C'est le Christ, crucifié et glorifié, qui passe au milieu de ses disciples, pour les entraîner ensemble dans le renouveau de sa résurrection. C'est le sommet, ici-bas, de l'Alliance d'amour entre Dieu et son peuple: signe et source de joie chrétienne, relais pour la fête éternelle" (n. 58; cf. Gaudete in Domino, conclusion).

Mercredi 8 novembre 2000
Lecture: 1 Co 10, 16-17
1. "O sacrement de la piété! O signe de l'unité! O lien de la charité!". L'exclamation de saint Augustin dans son commentaire de l'Evangile de Jean (In Johannis Evangelium 26, 13) reprend et synthétise les paroles que Paul a adressées aux Corinthiens et que nous venons d'entendre: "Puisqu'il y a un seul pain, la multitude que nous formons est un seul corps, car nous avons tous part à un seul pain" (1 Co 10, 17). L'Eucharistie est le sacrement et la source de l'unité ecclésiale. Et cela a été répété depuis les origines de la tradition chrétienne, en se fondant précisément sur le signe du pain et du vin. Ainsi, dans la Didachè, un écrit rédigé à l'aube du christianisme, il est affirmé: "De même que ce pain rompu était auparavant dispersé sur les monts et, qu'une fois rassemblé, il est devenu une seule réalité, que ton Eglise se rassemble ainsi des extrémités de la terre dans ton royaume" (9, 1)
2. Saint Cyprien, Evêque de Carthage, faisant écho à ces paroles au IIIème siècle, affirme: "Les sacrifices mêmes du Seigneur mettent en lumière l'unanimité des chrétiens cimentée par une solide et indivisible charité. Car, lorsque le Seigneur appelle son corps le pain composé par l'union de nombreux grains de blé, il indique notre peuple rassemblé, qu'il nourrit; et lorsqu'il appelle son sang le vin pressé des nombreuses grappes et grains de raisin et mêlés ensemble, il indique de la même façon notre troupeau composé d'une multitude unie ensemble" (Ep. ad Magnum 6). Ce symbolisme eucharistique en relation avec l'unité de l'Eglise revient fréquemment chez les Pères et les théologiens scolastiques: "Le Concile de Trente en a résumé la Doctrine en enseignant que notre Sauveur a laissé l'Eucharistie à son Eglise "comme symbole de son unité et de la charité avec laquelle il désira que tous les chrétiens soient intimement unis entre eux"; c'est pourquoi elle est le "symbole de cet unique corps, dont il est la tête"" (Paul VI, Mysterium fidei: Ench. Vat., 2, 424; cf. Conc. Trid., Décret sur la Très Sainte Eucharistie, préambule et c. 2). Le Catéchisme de l'Eglise catholique résume cela de façon claire: "Ceux qui reçoivent l'Eucharistie sont unis plus étroitement au Christ. Par là même, le Christ les unit à tous les fidèles en un seul corps: l'Eglise" (CEC, n. 1396).
3. Cette doctrine traditionnelle est profondément enracinée dans l'Ecriture. Paul, dans le passage déjà cité de la première Epître aux Corinthiens, la développe en partant d'un thème fondamental, celui de la koinonía, c'est-à-dire de la communion qui s'instaure entre le fidèle et le Christ dans l'Eucharistie. "La coupe de bénédiction que nous bénissons, n'est-elle pas communion (koinonía) au sang du Christ? Le pain que nous rompons, n'est-il pas communion (koinonía) au corps du Christ?" (10, 16). Cette communion est décrite plus précisément dans l'Evangile de Jean, comme une relation extraordinaire d'"intériorité réciproque": "lui en moi et moi en lui". En effet, déclare Jésus dans la synagogue de Capharnaüm: "Qui mange ma chair et boit mon sang demeure en moi et moi en lui" (Jn 6, 56). C'est un thème qui sera également souligné dans les discours de la Dernière Cène grâce au symbole de la vigne: le sarment n'est verdoyant et ne porte du fruit que s'il est greffé sur le pied de la vigne, dont il reçoit lymphe et soutien (Jn 15, 1-7). Autrement, il ne s'agit que d'une branche sèche et destinée au feu: aut vitis aut ignis, "ou la vigne ou le feu", commente de façon lapidaire saint Augustin (In Johannis Evangelium 81, 3). On définit ici une unité, une communion, qui se réalise entre le fidèle et le Christ présent dans l'Eucharistie, sur la base de ce principe que Paul formule ainsi: "Ceux qui mangent les victimes ne sont-ils pas en communion avec l'autel" (1 Co 10, 18).
4. Cette communion-koinonía de type "vertical", car elle s'unit au mystère divin, engendre dans le même temps une communion-koinonía que nous pourrions dire "horizontale", c'est-à-dire ecclésiale, fraternelle, capable d'unir par un lien d'amour tous les participants à la même table. "Parce qu'il n'y a qu'un pain - nous rappelle Paul - , à plusieurs nous ne sommes qu'un corps, car tous nous participons à ce corps unique" (1 Co 10, 17). Le discours sur l'Eucharistie anticipe la profonde réflexion ecclésiale que l'Apôtre développera dans le chapitre 12 de cette même Lettre, lorsqu'il parlera du corps du Christ dans son unité et sa multiplicité. La célèbre description de l'Eglise de Jérusalem, offerte par Luc dans les Actes des Apôtres décrit elle aussi cette unité fraternelle ou koinonía, en la reliant à la fraction du pain, c'est-à-dire à la célébration eucharistique (cf. Ac 2, 42). Il s'agit d'une communion qui s'accomplit dans les événements concrets de l'histoire: "Ils se montraient assidus à l'enseignement des apôtres, fidèles à la communion fraternelle (koinonía), à la fraction du pain et aux prières [...] Tous les croyants ensemble mettaient tout en commun" (Ac 2, 42-44).
5. On renie donc la signification profonde de l'Eucharistie, lorsqu'on la célèbre sans tenir compte des exigences de la charité et de la communion. Paul est sévère avec les Corinthiens, car lors-qu'ils se rassemblent, "ce n'est plus le Repas du Seigneur" (1 Co 11, 20) qu'ils prennent, à cause des divisions, des injustices, des égoïsmes. Dans ce cas l'Eucharistie n'est plus agape, c'est-à-dire expression et source d'amour. Et celui qui y participe de façon indigne, sans qu'elle débouche sur la charité fraternelle, "mange et boit sa propre condamnation" (1 Co 11, 29). "Si en effet la vie chrétienne s'exprime dans l'accomplissement du plus grand commandement, c'est-à-dire dans l'amour de Dieu et du prochain, cet amour trouve sa source précisément dans le saint sacrement, qui est appelé communément sacrement de l'amour" (Dominicae coenae, n. 5). L'Eucharistie rappelle, rend présente et engendre cette charité. Reprenons alors l'appel de l'Evêque et martyr Ignace, qui exhortait à l'unité les fidèles de Philadelphie en Asie mineure: "La chair de notre Seigneur Jésus-Christ est une seule, le calice dans l'unité de son sang est un seul, l'autel est un seul, de même que l'Evêque est un seul" (Ep. ad Philadelphenses, n. 4). Et, avec la liturgie, nous prions Dieu le Père: "Quand nous serons nourris de son corps et de son sang et remplis de l'Esprit Saint, accorde-nous d'être un seul corps et un seul esprit dans le Christ" (Prière eucharistique III).

Mercredi 15 novembre 2000
Lecture: Jn 17, 20-21
1. Dans le programme de cette année jubilaire ne pouvait manquer la dimension du dialogue oecuménique et du dialogue interreligieux, comme je l'ai déjà indiqué dans Tertio millennio adveniente (cf. nn. 53 et 55). La ligne trinitaire et eucharistique que nous avons développée dans les précédentes catéchèses nous conduit à présent à nous arrêter sur ce thème, en prenant tout d'abord en considération le problème de la recomposition de l'unité entre chrétiens. Nous le faisons à la lumière du récit évangélique sur les disciples d'Emmaüs (cf. Lc 24, 13-35), en observant la façon dont les deux disciples, qui s'éloignaient de la communauté, furent poussés à accomplir le chemin en sens inverse et à la retrouver.
2. Les deux disciples tournaient le dos au lieu où Jésus avait été crucifié, car cet événement constituait pour eux une cruelle déception. C'est pour la même raison qu'ils s'éloignaient des autres disciples et retournaient, pour ain-si dire, à l'individualisme. "Ils conversaient entre eux de tout ce qui était arrivé" (Lc 24, 14), sans en comprendre le sens. Ils ne comprenaient pas que Jésus était mort "afin de rassembler dans l'unité les enfants de Dieu dispersés" (Jn 11, 52). Ils ne voyaient que l'aspect terriblement négatif de la croix, qui ruinait leurs espérances: "Nous espérions, nous, que c'était lui qui allait délivrer Israël" (Lc 24, 21). Jésus ressuscité s'approche d'eux et marche avec eux, "mais leurs yeux étaient empêchés de le reconnaître" (Lc 24, 16), car du point de vue spirituel, ils se trouvaient dans les ténèbres les plus obscures. Jésus s'engage alors avec une admirable patience à les ramener à la lumière de la foi, au moyen d'une longue catéchèse biblique: "Commençant par Moïse et parcourant tous les Prophètes, il leur interpréta dans toutes les Ecritures ce qui le concernait" (Lc 24, 27). Leur coeur commença à brûler (cf. Lc 24, 32). Ils prièrent leur mystérieux compagnon de rester avec eux. "Et il advint, comme il était à table avec eux, qu'il prît le pain, dit la bénédiction, puis le rompit et le leur donna. Leurs yeux s'ouvrirent et ils le reconnurent... mais il avait disparu de devant eux" (Lc 24, 30-31). Grâce à l'explication lumineuse des Ecritures, ils étaient passés des ténèbres de l'incompréhension à la lumière de la foi et étaient devenus capables de reconnaître le Christ ressuscité "à la fraction du pain" (Lc 24, 35). L'effet de ce changement profond fut un élan à repartir sans attendre et à revenir à Jérusalem pour rejoindre "les Onze et leurs compagnons" (Lc 24, 33). Le chemin de foi avait rendu possible l'union fraternelle.
3. Le lien entre l'interprétation de la Parole de Dieu et l'Eucharistie apparaît également ailleurs dans le Nouveau Testament. Jean, dans son Evangile, relie cette parole à l'Eucharistie lorsque dans le discours de Capharnaüm, il nous présente Jésus qui évoque le don de la manne dans le désert en le réinterprétant de façon eucharistique (cf. Jn 6, 32-58). Dans l'Eglise de Jérusalem, l'assiduité à l'écoute de la didaché, c'est-à-dire l'enseignement apostolique fondé sur la Parole de Dieu, précédait la participation à la "fraction du pain" (Ac 2, 42). A Troas, lorsque les chrétiens se réunirent autour de Paul pour "rompre le pain", Luc rapporte que le rassemblement commença par de longs discours de l'Apôtre (cf. Ac 20, 7), certainement pour nourrir la foi, l'espérance et la charité. Il ressort clairement de tout cela que l'union dans la foi est la condition préliminaire à la participation commune à l'Eucharistie.
Avec la liturgie de la Parole et l'Eucharistie - comme nous le rappelle le Concile Vatican II en citant saint Jean Chrysostome (In Joh. hom. 46) - "les fidèles, unis à l'Evêque, trouvent accès auprès de Dieu le Père par son Fils, Verbe incarné, mort et glorifié, dans l'effusion de l'Esprit Saint. Ils entrent de la sorte en communion avec la Très Sainte Trinité et deviennent "participants de la nature divine" (2 P 1, 4). Ainsi donc, par la célébration de l'Eucharistie du Seigneur dans ces Eglises particulières, l'Eglise de Dieu s'édifie et grandit, la communion entre elles se manifestant par la concélébration" (Unitatis redintegratio, n. 15). Ce lien avec le mystère de l'unité divine engendre donc un lien de communion et d'amour entre ceux qui sont assis à l'unique table de la Parole et de l'Eucharistie. La table unique est le signe et la manifestation de l'unité. "En conséquence, la communion eucharistique est inséparablement liée à la pleine communion ecclésiale et à son expression visible" (La recherche de l'unité - Directoire oecuménique 1993, n. 129).
4. Sous cette lumière, on comprend comment les divisions doctrinales existant entre les disciples du Christ rassemblés dans les diverses Eglises et Communautés ecclésiales limitent le plein partage sacramentel. Le Baptême est, toutefois, la racine profonde d'une unité fondamentale qui lie les chrétiens malgré leurs divisions. Donc, si la participation à la même Eucharistie demeure exclue pour les chrétiens encore séparés, il est possible d'introduire dans la Célébration eucharistique, dans des cas spécifiques prévus par le Directoire oecuménique, des signes de participation qui expriment l'unité déjà existante et qui vont dans la direction de la pleine communion des Eglises autour de la table de la Parole et du Corps et du sang du Seigneur. Ainsi, "dans des occasions exceptionnelles et pour une juste cause, l'Evêque du diocèse peut permettre qu'un membre d'une autre Eglise ou Communauté ecclésiale y tienne la charge de lecteur" (n. 133). De même "lorsqu'une nécessité l'exige ou qu'un véritable bien spirituel le suggère et pourvu que soit évité tout danger d'erreur ou d'indifférentisme", parmi les catholiques et les chrétiens orientaux une certaine réciprocité est licite pour les sacrements de la pénitence, de l'Eucharistie et de l'onction des malades (cf. nn. 123-131).
5. Toutefois, l'arbre de l'unité doit croître jusqu'à sa pleine expansion, comme le Christ l'a invoqué dans la grande prière du Cénacle, ici proclamée en ouverture (cf. Jn 17, 20-26; Unitatis redintegratio, n. 22). Les limites dans l'intercommunion devant la table de la Parole et de l'Eucharistie doivent se transformer en un appel à la purification, au dialogue, au chemin oecuménique des Eglises. Ce sont des limites qui nous font ressentir plus fortement, précisément dans la Célébration eucharistique, le poids de nos divisions et de nos contradictions. L'Eucharistie constitue ainsi un défi et une provocation placée au coeur même de l'Eglise pour nous rappeler l'intense et extrême désir du Christ: "Afin que tous soient un" (Jn 17, 11.21).
L'Eglise ne doit pas être un corps aux membres divisés et qui souffrent, mais un organisme vivant et fort qui avance en étant soutenu par le pain divin, comme il est annoncé dans l'épisode du chemin d'Elie (cf. 1 R 19, 1-8), jusqu'au sommet de la rencontre définitive avec Dieu. C'est là que s'accomplira finalement la vision de l'Apocalypse: "Et je vis la cité sainte, Jérusalem nouvelle, qui descendait du ciel, de chez Dieu; elle s'est faite belle, comme une jeune mariée parée pour son époux" (21, 2).